Parvenze e sembianze This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at http://www.gutenberg.org/license. Title: Parvenze e sembianze Author: Adolfo Albertazzi Release Date: October 22, 2011 [EBook #37819] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK PARVENZE E SEMBIANZE *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net. This file was produced from images generously made available by The Internet Archive. ADOLFO ALBERTAZZI PARVENZE E SEMBIANZE LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO CHI DI GALLINA NASCE..... GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO — PUNIZIONE MOLTO RUMORE PER NULLA — SICUT ERAT...... I NOVELLATORI E LE NOVELLATRICI DEL “DECAMERONE„ LA NOVELLA DI FIORDILIGI BOLOGNA DITTA NICOLA ZANICHELLI (_Cesare e Giacomo Zanichelli_) MDCCCXCII ———— _Proprietà letteraria riservata_ ———— INDICE LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO CHI DI GALLINA NASCE.... I. II. III. IV. V. VI. GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO I. II. III. IV. V. VI. PUNIZIONE MOLTO RUMORE PER NULLA I. II. III. IV. SICUT ERAT.... I NOVELLATORI E LE NOVELLATRICI DEL _DECAMERONE_ I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. LA NOVELLA DI FIORDILIGI LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO La corte di Carlo primo d’Angiò dopo la strage di Tagliacozzo e poscia che da un colpo di scure fu troncata l’adolescente baldanza di Corradino di Svevia, fioriva di nobili donne e baroni e cavalieri e splendeva in magnificenza di conviti, danze, tornei e feste mai piú vedute. Ad una di tali feste messer Bertramo d’Aquino, che tra i cavalieri del re aveva lode di singolare valore e cortesia, conobbe la moglie di messer Corrado, suo amico di molti anni, la quale era bellissima donna e si chiamava Fiola Torrella; e cominciando egli subito a vagheggiarla, in breve se ne innamorò di guisa che non poteva pensare ad altro. E giacché madonna Fiola, non per freddezza di natura o per amor del marito o per sincerità di virtú, ma per diffidenza degli uomini e timore di scandalo e troppa stima di sé medesima, gli si mostrava aspra e fiera, messer Bertramo si perdeva ogni dí piú nel desiderio di lei e per lei giostrava, faceva grandezze, vinceva ogni altro cavaliere in gentilezza e liberalità. Tutto invano: madonna era sorda alle sue ambasciate, gli rinviava lettere e doni, non gli rivolgeva pure uno sguardo. Ond’egli, che oramai non sperava piú nulla, nulla piú le chiedeva; e non sentendo alcun bene se non in vederla, triste e sconsolato, ma sempre con destrieri nuovi e mirabili, passava tutti i giorni sotto alle finestre di lei e ogni volta poteva vederla la salutava umilmente: essa moveva altrove i begli occhi. Un amico, il quale vantava grande esperienza in conoscer le donne, confortava Bertramo: — O madonna ha un altro amante, ciò che non sembra da credere, o finirà con innamorarsi di voi —. E Bertramo per mezzi sottili ebbe certezza che Fiola non aveva altro amante; ma ella non cedeva, anzi diveniva piú rigida; sí che quell’amico esperto assai delle donne avrebbe dovuto ricredersi se la fortuna, impietosita delle angoscie del cavaliere, non avesse trovata una strana via per aiutarlo. Certo giorno messer Corrado condusse la moglie e una gaia compagnia di cavalieri e di dame alla caccia del falcone in una villa che aveva poco lungi da Napoli; e poi che con loro fu stato in piú parti senza molta fortuna, giunto a una valletta, la quale pareva fatta dalla natura per cacciarvi, disse tutto allegro: — Ora vedrete se il mio sparviero sa spennacchiare! — I cani si misero presto sulla traccia delle starne e levandone un bracco un fitto drappello, egli fe’ il getto e gridò: — Guardate! — Lo sparviero, che era ben destro, scese di furia sulle starne frullanti e le disperse; una ghermí e stracciò e inseguí le altre, come un soldato valoroso che piombi sur una schiera di nemici e abbattutone uno fughi e persegua i rimanenti. — Come Bertramo d’Aquino, mio capitano, a Tagliacozzo — disse messer Corrado; e per dar ragione del confronto tra il suo caro sparviero e l’amico assai caro, narrò di questo le belle prodezze quando l’avea veduto irrompere impetuoso nel furor della mischia. — Certo — aggiungeva — non è alla corte e fuori chi uguagli Bertramo in piacevolezza di parlare, grazia di modi e generosità e magnificenza d’animo; e anche il re gli vuole gran bene. — E di Bertramo proseguiva a narrare piú geste e vicende. Madonna Fiola ascoltava attenta il marito e le lodi al cavaliere che aveva posto ardentissimo amore in lei le pungevano l’animo di compiacenza, quasi lodi fatte alla sua bellezza, se la sua bellezza aveva potuto accendere senza misura uomo cosí perfetto; e come le lusinghe della vanità nelle donne possono tutto, anche piegare a sensi miti le piú proterve, ella rivolgeva nel pensiero quante pene aveva sostenute Bertramo; quanto acerba noncuranza gli aveva dimostrata, e le pareva d’aver fatto male. Potenza d’Amore! Essa già sentiva che meglio che una durezza superba e una fredda virtú soddisfaceva il suo orgoglio l’innalzare a sé il piú ammirato dei cavalieri, senza piú timore alcuno d’abbassarsi a lui; nella esuberante sua giovinezza già serpeva un desiderio vago di consolazioni nuove e di nuove gioie suscitate e acuite, per lo spirito e per i sensi, dalla forza della passione e dalla fatalità della colpa. Perché era fatale che amasse Bertramo d’Aquino, se fino a quel giorno inutilmente aveva voluto resistergli. Tutto quel giorno pensò a lui; né sí tosto fu di ritorno a Napoli che si pose al balcone bramosa che egli, come soleva, passasse di là a riguardarla; e con suo conforto lo vide giungere all’ora usata. Ratteneva il bizzarro puledro e per quetarlo gli passava la mano su ’l collo scorso da un tremito: salutò la dama, la quale smorta e palpitante risalutò e parve sorridere, e a lui s’allargò il cuore e chiari la faccia in subita allegrezza. Cosí Bertramo fu pronto a scrivere una lettera a madonna Fiola scongiurandola di commuoversi a misericordia e di procurargli agio a parlarle; e n’ebbe risposta: a lei era grato l’amore di lui, ma per l’onor suo e del marito ella non poteva promettere e concedere cosa che le chiedesse. Riscrisse egli assicurandola che voleva solo parlarle e che in ciò solo poneva la salvezza della sua misera vita; ed ebbe risposta: venisse, ma a parlare soltanto, una prossima sera (e Fiola diceva quale) in cui Corrado, di ritorno da una caccia lontana e faticosa, sarebbe andato a dormire per tempo. Ecco finalmente la sera del convegno; limpida sera estiva. Bertramo s’era dilungato assai fuori della città quasi ad affrettare, ad incontrare l’ora invocata e troppo lenta a discendere; e quando le ombre confusero le cose e le stelle si specchiarono nel mare pensò: — Di già Fiola m’aspetta —; ma non tornò a dietro, ma senti vivo il piacere d’essere atteso, egli che dell’attesa aveva patita tutta la pena. Pure il maligno compiacimento fu breve e se ne dolse; rivolse il cavallo e gl’infisse gli sproni nei fianchi: via, di aperto galoppo e di piena gioia, come all’assalto! Intanto Fiola, visto che ebbe il marito addormentato nel profondo sonno della stanchezza, consegnò due lenzuoli di tela finissima alla piú fida delle sue donne, che andasse a distenderli su ’l molle letticciolo composto entro una casupola in fondo al giardino per riposarvi nel tempo piú caldo; ed essa corse a socchiudere la porta dalla quale doveva entrare l’amante. Ascoltò: nessuno. Allora dalle aiuole e dalle macchie si die’ a raccogliere le piú belle rose e strappandone i gambi riponeva le corolle e i petali freschi in un cestello che recava al braccio: anche vi metteva fragranti vainiglie e gelsomini, e quando il cestello fu colmo lo porse alla fante e le disse: — Spargi questi fiori su le lenzuola e acconcia ogni cosa; e poco dopo che messere sarà venuto, fanne cenno d’entrare. — E stette ad attendere. Ma alla mente di lei, che con la fantasia si spingeva da un pezzo a pregustare le voluttà del suo dolce amore, balenò a un tratto il dubbio non stesse per cadere nella vendetta di messer Bertramo, il quale troppo duramente e troppo lungamente aveva fatto soffrire; non dovesse, se messer Bertramo mancasse per inganno al convegno, esser fatta gioco di lui. E se egli non era dell’animo che suo marito le avea dipinto, non poteva ella, con acerbo dolore e vergogna, divenire la favola non solo di lui, ma de’ suoi amici e di tutta la città, ella, la virtuosa donna di messer Corrado? Onde si vedeva accomunata dalla colpa e dallo scherno a quante dianzi spregiava, e si doleva d’esser caduta della sua casta fierezza e malediceva al mal concepito affetto. Ma ascoltò: — Eccolo! —, e rapida e lieta fu incontro al cavaliere che entrava e gli aperse le braccia sorridendo e sospirando: — Ben venuta l’anima mia, per cui sono stata tanto in affanno! — Messer Bertramo la strinse forte: — Mercé dunque del suo grande amore; pietà, o madonna Fiola, dei suoi lunghi travagli! — Le parole di lui erano ardenti non meno che gli sguardi di lei, e a lui pareva che ella avesse una luce intorno il capo biondo, e a lei sembrava ch’egli fosse ebbro d’amore. Sedettero sotto un arancio fiorito scambiando piú baci che motti, e come Fiola pensava — Or ora la fante ci dà il segno d’entrare —, messer Bertramo, il quale nelle avide strette la sentiva tutta desiosa e del suo bel corpo indovinava i segreti mal difesi dalla veste sottile, poco piú tempo attendeva a godere del piacere ultimo e sommo. Ma meravigliandolo assai una tale accondiscendenza in Fiola, egli volle conoscere prima da lei perché fosse stata tanto rigida seco e qual cagione l’avesse indotta da poco a dargli un conforto sí grande. Ella rispose: — Io non v’amava; ma mio marito, un giorno che eravamo alla caccia insieme con molti cavalieri e gentildonne, osservando un nostro bravo falcone precipitare addosso a una brigata di starne e scompigliarle tutte, si sovvenne di voi e disse che come il falcone alle starne aveva visto far voi ai nemici nella battaglia. E recò prove del vostro valore e di voi asseriva che nessuno poté mai superarvi in cortesia e liberalità. Allora io ammirando l’animo vostro mi pentii subitamente d’avervi fuggito quasi mala cosa, e ora vi dono co ’l mio cuore tutta me stessa. — Udite le parole della donna, messer Bertramo stette alquanto silenzioso e raccolto in sé medesimo per improvvisa concitazione di pensieri e di affetti diversi; poi, con uno sforzo che parve e fu supremo, perché egli rifiutava il bene non di quella sera, ma della sua giovinezza, ma della sua vita, si levò in piedi e disse: — Non sarà mai ch’io offenda vostro marito se egli mi ama cosí e se ha tanta fede in me! — E tolte di seno alcune bellissime gioie, le porse alla donna pregandola di serbarle per sua memoria: — Per memoria di voi, voi datemi ora un ultimo bacio. — Madonna Fiola Torrella turbata molto, chi sa se per nuova ammirazione dell’animo nobilissimo del gentiluomo o piú tosto per vivo rammarico del perduto piacere, lo baciò sulla bocca, e messer Bertramo, senza piú toccarla, le disse addio e partí. ———— Sterne giungeva di rado al luogo per cui si metteva in cammino; io a ciò che mi propongo. Questa volta intendevo esaminare in confronto della dura semplicità e brevità onde Masuccio narrò primo il fatto di messer Bertramo¹, la prolissità e la pompa svenevole con la quale Gianfrancesco Loredano secentista rifece e allargò, trasportandone i personaggi ai suoi tempi, questa storia d’amore²; ma invece, non so come e perché, la fantasia condusse me pure a rinnovare e a diffondere l’antica novella, e adesso, su ’l punto d’incominciare il raffronto, ristò chiedendomi: A che cosa gioverebbe il mio studio? Veramente gli eruditi non si fanno sempre questa dimanda. CHI DI GALLINA NASCE.... I. Il dí che in Firenze per frenesia di Francesco De’ Medici era imposta su ’l capo di Bianca Cappello la corona di granduchessa, in Bologna Ercole e Alessandro Bentivogli facevano “dinanzi a casa loro correre a’ cavalli dei Monari dodici braccia di grossogron et una berretta di panno in segno d’allegrezza„; ma Pasquino domandava al conte Ulisse Bentivogli, il quale da tre anni era marito a Pellegrina figliola di Bianca e di Pietro Bonaventura: Si Cosmi titulos Virgo foedavit Hetrusca Quid faciet meretrix, heu, _peregrina_ tibi?³, e nella interrogazione epigrammatica rideva una profezia. Spiace per altro non conoscere tutti i miracoli di cotesta contessa, che, se vera la storia, un’ultima colpa condusse a perire in età di trentaquattro anni piú miseramente di sua madre. Il matrimonio del Bentivoglio, celebrato con gran pompa a Bologna il 24 agosto 1576 — recando la sposa allo sposo una dote di trentamila scudi e una beltà ancor puerile ma già meravigliosa⁴ —, era stato “di poca soddisfazione al paese„; onde il conte avea presa dimora a Firenze. Pure il 23 febbraio 1578, in occasione d’una breve gita di Bianca e Pellegrina a Bologna, “la prima nobiltà della città, sí di cavalieri che di dame„ era mossa ad incontrarle, “per rispetto al Granduca, per essere la detta Bianca sua cosa„⁵; cosí come ad onore della figlia non piú d’una concubina, ma d’una granduchessa, il 22 dicembre 1583 furono incontro ai coniugi Bentivoglio, di ritorno per qualche mese alla patria, “quarantaquattro carrozze di dame e gran numero di cavalieri a cavallo, oltre li cavalli leggieri; et il Bentivoglio era a man destra di Pirro Malvezzi, non ostante che fosse senatore e de’ collegi„⁶. Nell’aprile dell’anno appresso Pellegrina si recò di nuovo a Firenze per assistere alle nozze di Vincenzo Gonzaga e di Eleonora De’ Medici, e solo il 13 febbraio 1588, ma questa volta per sempre, riprese ad abitare in Bologna. Con la fresca e fosca rimembranza della morte di sua madre si contenne allora in vita solinga? No, ché sentiva bisogno di distrazioni; e a primavera di quell’anno medesimo ebbe voglia, lasciando il marito a casa, di fare una scappata a Venezia in allegra compagnia di dame e gentiluomini; e ad autunno, nella venuta de’ duchi mantovani, si compiacque d’apparire per grazia e per fasto la prima gentildonna che fosse in Bologna a quel tempo⁷. Ma se delle qualità vere della persona e credute dell’animo suo avevano pure in Firenze diffusa l’ammirazione Francesco de’ Vieri detto il Verino, dedicandole il _Discorso della grandezza et felice fortuna d’una gentilissima et gratiosissima donna qual fu Madonna Laura_⁸, e maestro Fabrizio Caroso offrendole tra i balli di sua composizione una “cascarda„ con a tema musicale un sonetto che comincia: Luci beate ove s’annida Amore, Vivi raggi del sol, dolci facelle Che le piú gelide alme e le piú belle Infiammate di santo e pure ardore⁹ quegli che di lei ci lasciò il piú ingenuo ricordo fu il poeta bolognese Cesare Rinaldi. Nel 1590 egli le porgeva la terza parte delle sue rime dicendole: “L’esser piaciuto a V. Eccellenza Ill.ma di favorire talora le sue rime della vista, della voce et del giudicio suo, ripieno di tanta acutezza et accortezza insieme, onde mostra la perfetta cognizione che ha di ogni bella virtú, mi ha facilmente indotto a credere che parimente non debba sdegnare di riceverle se nello uscir fuori a scorrere il mondo in istampa, non meno create di dentro che segnate di fuori del suo Ill.mo Nome, ora ritornano tutte insieme nelle sue onoratissime mani, donde sono partite, non altrimente che si faccia, come dicono, il fiume Meandro, il quale favorito da tanti canori et bianchissimi cigni alle sue rive con le loro meravigliose armonie, pare che nello scorrer il paese, ritorcendo il suo corso et raggirando, colà se ne ritorni donde partí, quasi allettato dalla dolcissima soavità dei cigni, come.... (coraggio, che il periodo finisce adesso e finisce bene!).... come le mie rime da quella di V. Ecc.za Ill.ma, veramente umano et candidissimo cigno in ogni virtú et regal costume„¹⁰. Candidissimo cigno in ogni virtú la figlia di Bianca Cappello? Ohibò!; e le rime son troppo “create di dentro„ co ’l nome di lei: Cauto a gl’inganni Amor l’armi depose, L’ale agli omeri strinse e le coperse: Di _pellegrino_ in forma ei mi s’offerse E _pellegrina_ idea nel cor mi pose. Or vo _pellegrinando_.... A l’ombra di duo neri archi sottili Due _pellegrine_ stelle il mondo ammira.... Qual or io ti vagheggio, Pellegrina gentil, misto in te veggio Col celeste il mortai, _col nero il bianco_: (allusione, pare, alla sua bellezza): Sotto l’oscuro velo Scopro candor di Delo; Sotto la spoglia frale Scerno virtú immortale, Ond’al mirar non è l’occhio mai stanco; Miro e mirando i’ godo, e ’n viso adorno Scorgo la terra e ’l ciel, la notte e ’l giorno.... .... Quale al nascer di Palla alta e immortale Versò dorato nembo Sovra Rodi dal ciel l’eterno Giove, Tali e piú care a te piovvero in grembo Nel felice natale Nove grazie d’amor, bellezze nove. Folle chi mira altrove, Che ’l bello è in te raccolto, Vertú nel petto et onestà nel volto: S’impresse a mille il tuo valor nel seno, Quando coi pensier casti _Pellegrinasti_, o Pellegrina, al Reno. Qui ten vivi al tuo sposo onesta e bella Sotto il soave giogo, Qual Penelope fida al caro Ulisse.... Ma durante l’assenza del “caro Ulisse„, il quale nel 1595 fu con Antonio De’ Medici alla guerra in Ungheria¹¹, il poeta dovette farse avvedersi come era fallace la virtú da lui cantata immortale e come la non fida Penelope sapeva intessere varie tele di colpe. II. Nell’estate del 1598 su la famiglia Bentivoglio passava con tragica ombra una strana sciagura, che quarant’anni di poi porgeva argomento a uno sciatto romanzo di Girolamo Brusoni: la tragedia, se tale quella sventura, era stata velata di mistero, e il romanzo _La Fuggitiva_¹² lasciando indovinare facilmente il nome dei personaggi e dei luoghi, parve ralluminarla; però esso ebbe, senza merito artistico, una grande fortuna. Ma quanta parte del lavoro fu imaginaria? Spoglio d’ogni particolare inutile e d’ogni sfogo di secentismo ne resta questo. — Ulisse Bentivoglio, a festeggiare la recente nascita d’un figliolo, indisse una giostra nella quale il fratello di lui, Francesco, fu vinto solo da un incognito cavaliere: Flaminio Malvezzi, “giovinetto di mediocre fortuna ma di nobili spiriti„ e fatale amante di Pellegrina, che fino a quel dí “era rimasta indifferentissima degli amori„. Il valoroso Malvezzi presto ammalò di passione e la contessa durante un’assenza del marito lo consolò di baci; indi, in villa a Bagnarola, di qualche cosa di piú; e tanto andò la bisogna, come dice il Boccaccio, che l’adulterio venne a conoscenza della signora Isotta Manzoli, la zia del marito. Ma i consigli di questa dama prudente all’imprudente Pellegrina tornarono vani; vane le esortazioni di Filippo Pepoli, quando seppe anche lui la brutta faccenda, all’amico Malvezzi, per salvare l’onore del povero Bentivoglio; e alla fine una traditrice cameriera rivelò la tresca al suo innamorato, il figlio maggiore del conte! Il conte chiarito di tutto dal figlio dié incarico a suo fratello Francesco di ammazzargli o fargli ammazzare il Malvezzi e ripose la sorte della moglie in balía del granduca di Toscana. Onde meglio sarebbe stato per Pellegrina fuggire con l’altro suo amante, un Riario, che inutilmente gliene avea fatta proposta, perché un dí arrivò a Bagnarola Antonio De’ Medici ad assassinarla. — Poco nel romanzo e meno, ma peggio, nella storia. “Questa donna — Pellegrina — non seppe contenersi nelle sue inclinazioni; il perché da’ figliuoli mal sopportata, fu con motivo d’andare a spasso nelle valli d’Argenta sommersa in quell’acque per opera del figlio Francesco, che facendo nascere l’accidente da un meditato ripiego lasciò dar volta al legno ov’era, e la povera dama restò miseramente, senza verun aiuto, sommersa„¹³. Il drudo Flaminio Malvezzi trovò la morte nel 1629 militando in Fiandra sotto le insegne del marchese del Vasto¹⁴: il marito Ulisse morí nel 1618, già vedovo da undici anni della seconda moglie Virginia Olivi: dei cinque figli di Pellegrina, Giorgio era stato ucciso a Firenze nel 1611 dal cavaliere Lanfreducci¹⁵; Francesco, il probabile matricida, benché protonotario apostolico e cavaliere di Malta, fu decapitato a Roma in Torre di Nona il I dicembre del 1636 per mala vita e per aver offeso in satire il papa Urbano VIII¹⁶; Bianca, se non finí tragicamente, fu cagione di tragedia, sempre per quella necessità d’atavismo che l’esperienza fermò nell’adagio — Chi di gallina nasce convien che raspi. — III. Andrea di Bartolommeo Barbazza fu, chi credesse ai suoi ammiratori contemporanei, un grand’uomo. Per l’esperienza sua nelle “arti cavalleresche„ acquistò nome come padrino in duelli, maestro e giudice di campo in tornei e giostre, compositore di querele non solo fra concittadini ma sí fra ragguardevoli personaggi stranieri che ricorsero fiduciosi al suo consiglio; piú, quale cittadino benemerito ottenne sommi onori in patria, a Bologna, dove a venticinque anni, nel 1607, fu eletto degli “anziani„ e rieletto nella stessa carica nel 1616 e nel ’28, e nominato senatore nel ’46 e nel ’51 gonfaloniere; piú ancora: egli ebbe lode di poeta “insigne„ e compose nientemeno che una “favola tragicomica boschereccia„, _L’amorosa Costanza_; una favola musicale, _Atlante_; un “intermezzo per musica„, _Apollo e Dafne_; un volume di “lezioni accademiche„ e non so quanti sonetti stampati qua e là per le raccolte¹⁷. Ma il gran fatto della sua vita fu in partecipare alla liberazione di Giambattista Marini incarcerato a Torino e la grande opera sua in difender l’_Adone_: egli fu protettore e amico del piú famoso poeta del secolo XVII! Tra le molte è memorabile questa lettera che il Marini gli aveva scritta a Bologna dopo lo spavento della pistolettata del Murtola: “Veramente io confesso di dover non meno alla memoria che V. S. serba di me et al zelo che mostra alla mia salvezza, che alla protezione della fortuna, che con particolar privilegio mi liberò di sí grave pericolo.... Son vivo, sig. Barbazza, e godo piú di vivere nella grazia di V. S. che nella luce del mondo; et credami che vive un suo servidore prontissimo a spendere in suo servigio quest’avanzo di vita in quel fervore di volontà che si richiede a tante obbligazioni. Io pensava di venire in persona a servirla et a godere le delizie del carneval bolognese, ma questo disturbo mi ha impedito.... Delle mie poesie non ho che mandare a V. S., perché tutti i pensieri mi son fuggiti dal capo al romor delle archibugiate. Le Muse son come gli usignuoli, i quali se mentre stanno a cantar sopra un arbore sentono lo scoppio del cacciatore, sbalorditi dalla paura non vi tornano a trescar per un pezzo....„¹⁸. Non è meraviglia dunque se il Barbazza di ritorno di Francia co’l cardinale Ferdinando Gonzaga, del quale a trent’anni era divenuto maestro di camera e co’l quale aveva viaggiato anche in Spagna; il Barbazza, che da Caterina De’ Medici aveva ricevuto in dono una collana d’oro e la croce dell’ordine di San Michele, e in Torino riceveva omaggi come poeta e diplomatico egregio, s’adoperò affettuosamente a salvare il poeta dalle calunnie e dalla prigione. Per amore del Barbazza il Gonzaga s’uní con l’ambasciatore d’Inghilterra a impetrar il perdono del duca, e il Marini libero e grato chiamò Andrea “difensore della sua riputazione„¹⁹. E che meraviglia se piú tardi il letterato bolognese assalí l’autor dell’_Occhiale_ nelle _Strigliate a Tommaso Stigliani_, che stampò co’l leggiadro pseudonimo di Roberto Pogommega?²⁰ Peccato che “per accidente„ rimanesse fuori da esse _Strigliate_ questo Sonetto “molto galantissimo„, come fu detto dall’Aprosio che lo riferí nella sua _Biblioteca_: Mentre, Stiglian, vo’ pel tuo _Mondo_ in busca E in lodarti il cervello mi lambicco, Trovo che ’l naso in ogni buco hai ficco Onde tanto saver non ha la Crusca. È il tuo stil piú piccante di lambrusca E del tuo _Mondo novo_ assai piú ricco, Onde pien di stupor tutto m’incricco, Ché il tuo splendor l’istesso Apollo offusca. Han le tue rime cosí nobil metro Che qualora con esse altrui scorreggi Mi raccapriccio ed ascoltando impietro: Che se canti d’amore o se guerreggi, O se rompi agli eroi su ’l fronte il pletro Nell’armonia con gli asini gareggi. IV. Nel 1613 Ferdinando Gonzaga rinunciando al cappello cardinalizio e assumendo nome e potere ducale concesse ad Andrea Barbazza l’ufficio di cameriere segreto e l’onore di intimo consigliere. Ma presto il poeta sentí noia della corte di Mantova, e poiché aveva trentadue anni e nell’amor delle muse non trovava tutti i conforti che sono nell’amor delle donne, venne a Bologna a prender moglie: una figlia del conte Ulisse Bentivoglio Manzoli e di Pellegrina Bonaventura, quella tal signora famosa per errori e bellezza, pareva fatta per lui. E la sera del 23 aprile 1614 fu conchiuso il matrimonio con rogito del notaio Ercole Fabrizio Fontana, e tre giorni dopo la contessina Bianca Bentivoglio e il cavaliere Andrea Barbazza, testimoni i conti Battista Bentivogli e Alessandro Barbazza, si giurarono fede eterna nella chiesa di San Martino Maggiore²¹. Né alla solennità delle nozze mancò l’omaggio della poesia in forma d’un portentoso sonetto epitalamico dell’immortale Marini: Vide Tebe due soli a le nefande Opre crudeli, allor che ’l fier Tieste Le mense formidabili e funeste Colmò di sozze e tragiche vivande. E due ne vide ancor Roma la grande, Quando l’esequie dolorose e meste Pianse di lui, ch’or nel seren celeste Fatto lucida stella, i raggi spande. Ecco or su ’l picciol Reno a gli occhi nostri Non minor meraviglia il Ciel produce, Non d’orror ma d’onor prodigi e mostri. Coppia, ov’arde valor, beltà riluce, Tu quasi un sole a noi doppio ti mostri, O de la fosca età gemina luce²². In Bianca riluceva la beltà della nonna e della madre; era un angiolo, e ce l’attesta una lista di “motti„ pubblicati anni dopo e ricopiati poi dal Ghiselli, nella quale essa per un verso solo ebbe lode piú grande che tutte le belle gentildonne bolognesi del tempo suo. Giacché poco importa che a Francesca Sampieri convenisse dire: Santi i costumi son, sante son l’opre, e a Laura Pepoli: Alma real degnissima d’impero, e ad Orsina Leoni Magnani: Al tuo presumer ben s’agguaglia il merto. Non stimo grave danno non aver veduta Isabella Angelelli Nelle ruine ancor bella e superba; forse fu piena di grazia Benedetta Pinelli Ercolani Oh quanto è ritrosetta, oh quanto è schiva!, e furon forse desiderabili Imelda Lambertini, Primavera nel volto e nella testa, e Pierina Legnani: Bruna sei tu ma il bruno il bel non toglie; dovette anche recare certa consolazione piegare a soavi atti donne come Costanza Cospi, Un sí bel viso, un cuor di tigre e d’orsa!; Aurelia Marsili, Beltà ch’asconde un cuor ritroso e schivo; Laura dall’Armi, Mirata de ciascun passa e non mira, e la contessa Bianchi Campeggiar d’occhi e fulgorar di sguardi; né dovettero spiacere le carezze di Ginevra Isolani Oh bella man che mi trafigge il cuore!; ma quale de’ gentiluomini bolognesi non avrebbe ceduto magari l’amore di tutte per l’amore della sola Bianca Bentivogli Barbazza Alli spirti celesti in vista eguale —?²³ Dicono che Bianca Cappello ebbe i capelli biondi e gli occhi neri (io non ricordo la tela in cui la ritrasse il Bronzino); il poeta Rinaldi pareva ammirare in Pellegrina Bonaventura il candore della carnagione nel lume dei neri occhi e nel riflesso dei capelli neri; a Bianca Barbazza, rassomigliante in questo alla madre piú che alla nonna, fu pure attribuita la vivacità del “nero e del bianco„ in altra serie di “motti„, parte satirici e parte laudatori. Eccone alcuni: _Piombino da muratore_ — Virginia Ricordati Maranini _Il zibellino_ — Dorotea Albanesa Bulgarini _La mula del papa_ — N. Simoni Peppia _Il guardo soave_ — Diana Barbieri Rinieri _Il parapetto_ — Caterina Caccialupi Alamandini _La Ninfa_ — Livia Rossi Fantuzzi _La modesta_ — Camilla Beri Bandini _La tramontana_ — Camilla Orsi Leoni _La buona_ — Camilla Orsi Ghisellieri _La favorita_ — Doratrice Oro Gambari _La matrona_ — Silvia Orsi Sampieri _La pensosa_ — Valeria Lambertini Guidotti _La buona notte_ — Claudia Fantuzzi Paltroni _Il delfino, La cassa di noce_ — Camilla Fantuzzi Bandini _Il buondí_ — Clementina Orsi Ercolani _Il falcone_ — Orsina Foscherari Favi _L’Armida, Il Giardino d’Amore_ — Lodovica Amorini Campeggi _La parlatrice_ — Olimpia Guerrini Ghiselli _La splendida_ — Ippolita Campagni Ghiezzi _Il bianco et il nero_ — Bianca Bentivogli Barbazzi²⁴. Ma le sembianze di Bianca Bentivogli meritaron ben altro che l’insulsa indeterminatezza di questi attributi! Ella, “sole di beltà„, come la chiamò il Malvasia nella _Felsina pittrice_, per arte di Guido Reni si rivide immortale in figura d’una _Cleopatra_ che Andrea Barbazza acquistò, non so l’anno, e Antonio Bruni credette di rendere in rima: .... Non sembra in tela espressa, Perché il pittor l’avviva, amor l’ancide; Le dà spirto il pennel, l’angue l’uccide²⁵. Cosí dunque, con lieve sforzo di fantasia, possiamo imaginare Bianca nell’effusione di tutto il giovanile splendore a quella festa che né pure un anno dopo le sue nozze, al carnevale del 1615, fu data nel palazzo del Podestà, e che per magnificenza d’apparati e vestiari e novità d’invenzione e per la nobiltà dei cavalieri che vi tornearono — con essi anche il Barbazza e il fratello di Bianca Alessandro — parve meravigliosa e degna d’imperituro ricordo²⁶. Ne era venuta l’idea a parecchi gentiluomini i quali avendo ricercato una sera, come solevano di frequente per passare le ore, “qual fosse la piú espedita via d’acquistare la grazia dell’amata donna„, né essendo riusciuti ad accordarsi sulle varie proposte, avevan risoluto di rimettersene al giudizio delle armi. Detto, fatto; e per l’operosità in ispecie di Gabriele Guidotti, che inventò favola e macchine, curò l’allestimento del teatro e instruí i cavalieri, il 2 marzo a un’ora di notte tutta l’eletta società di Bologna poté convenire all’atteso divertimento. Tre ordini di gradini e tre ordini di logge accolsero gli spettatori: nei gradi a mezzodí le dame; di fronte a loro il cardinal legato Capponi e i magistrati; a destra e a sinistra i cavalieri. Nella scena dell’azione s’ergeva un tempio dorico circondato d’alberi; nell’alto, al principio, s’aprí una nube e apparve Giove in mezzo agli dei; e a lui Venere, con a lato il figliuolo cui accennava, chiese licenza di scendere in terra per soccorso e consiglio delle misere donne. Giove, manco a dirlo, assentí, e la nuvola si rinchiuse. Ed ecco uscire dal tempio un coro di sacerdoti, i quali si disponevano a sacrificare alla dea un leone un capro e un drago, quando a suono d’una musica sí dolce che — asserisce uno il quale l’udí, non io — “tutti gli spettatori sembrava ardessero del soavissimo fuoco d’Amore„, comparvero Venere e il figlio e l’amico di casa, Marte. Amore liberò le belve dall’imminente sacrificio: E questo altar or sia — _disse_ — Il tribunale ove porrò la seggia Per giudicar de’ cori Quali sian di pene e premi Meritevoli ardori. Un Amorino venne a querelarsi al picciolo Iddio di certa giovinetta che aveva abbandonato l’amante suo, ma poiché Venere difese la colpevole e poiché Marte, il quale aveva ragioni sue proprie di contraddizione alla dea, sostenne il cavaliere amante, bisognò trovare la fine del contrasto in particolari certami e in un generale torneo. Veramente ci fu ad intermezzo la comparsa della Gelosia in forma di larva orrenda con uno stuolo di “mostri neri ignudi alati„ e “con uno strepito di anime perdute„ in una voragine di fuoco; ma come la femmina maligna non riuscí a “mettere contagio nell’anima degli spettatori„ — asserisce uno spettatore, non io — posso risparmiarne la descrizione. E siamo cosí al meglio dello spettacolo. Arrivano due tamburini, ventiquattro paggi con scudi, e sei staffieri con due azze, due picche e due mazze; e dietro loro i cavalieri padrini del mantenitore, Francesco Cospi e Giovan Gabriello Guidotti; poi infine il mantenitore di Venere, Alessandro Bentivoglio, “vestito di morello e d’argento; calza intiera con tagli di cordelle d’argento, foderate di tela d’argento e morella, e strascinandosi dietro lunghissimo manto di seta morella, ricamato di fiori d’argento e di vari colori, tempestato di grosse gemme e perle, con cimiero altissimo di piume in pomposa mostra„. Di contro a lui, in una pianura, sorge uno scoglio con sópravi una donna — la Terra! —, che esorta le donne ad amare e cantare le lodi di Amore e quindi se ne va, mentre giunge una testuggine (qualcosa come il cigno wagneriano) recando con i loro padrini i due cavalieri Florimanno e Ribano — Alessio e Giovanni Orsi —, i quali vengono a sostenere “che la virtú non è compagna d’Amore„. Ma mal per essi, giacché Candauro, ossia il Bentivoglio, li abbatte entrambi. E sparisce la scena e apparisce il mare in cui s’eleva Proteo a dire anche lui non so quali belle parole: indi due altri cavalieri arrivano per farsi vincere dal cavaliere di Venere. Seguono due altri condotti da Iride, dei quali pure avviene l’abbattimento, e poi.... “... udissi un rimbombo.... et il cielo incominciò a rosseggiare, e balenando e fiammeggiando in guisa che parea che egli veramente ardesse, e a poco a poco radunandosi tutte quelle fiamme in globi, formarono come nuvola di fiamme in mezzo della quale udivasi la voce di persona, che rassomigliava il Fuoco, e cosí diceva de’ suoi cavalieri: E questi miei di vive fiamme ardenti, Fiamme, che il loro Amor, che l’altrui sdegno Si nutre al cor cocenti, Non troveran da te pace e pietade, Rigida inesorabile beltade? Io qui con lor, donne gentili, vegno Per palesarvi solo, Nel fiammeggiante lor tacito aspetto, Qual sia la pena e ’l duolo De l’infocato petto.... “Dopo le quali parole chiusasi la nuvola, continuamente spargendo raggi e faville di odorate fiamme, venne ad abbassarsi infino all’orizzonte, e quivi scoppiando con molti tuoni e baleni, espose fuori.... (oh meraviglia!).... il signor Andrea Barbazzi, cavaliere dell’ordine di San Michele e giovane di animo eguale alla grandezza del suo nascimento et di vero valore, et insieme il signor Ippolito Bargellini, non inferiore di generosità d’animo et di altezza di pensiero a chi si sia, i quali erano vestiti superbamente con calze intiere alla spagnuola, a tagli di cordelle d’oro e d’argento, foderate di tela d’oro ardente, con fiamme rosse, con le facelle di fuoco ardente in mano, cimieri altissimi fabbricati con piume rosse e fiori d’oro, a guisa di lingue di fiamme, che in forma di piramide ascendevano al cielo....„. “Li seguivano due gran Ciclopi ignudi, se non in quanto erano ricoperti vagamente in parte nel petto e nei fianchi da drappi dell’istesso colore del quale erano vestiti i primi; portavano due gran facelle nelle mani accese et pesanti martelli, et avevano un sol grand’occhio in mezzo la fronte; la faccia affumicata e rabbuffati i crini, e barba folta, sicché propriamente parevano Sterope e Bronte che venissero dalla fucina di Volcano e da gli incendii etnei ad accompagnare i cavalieri ardenti„. E tanti altri cavalieri successero che se ne composero squadre e, seguendo il torneo generale, gli eroi, sempre per divergenza d’opinioni intorno il miglior modo d’amare, “incominciarono con li stocchi in tal maniera a ferirsi che fecero impallidire i sembianti ed agghiacciare di gelata paura il cuore a molte di quelle bellissime dame„. Ma a conforto di esse si fé innanzi Amore a comandare tregua e quiete e a dar la sentenza pacificatrice: Chi cerca, amando e oprando, amore e fama, Merta il pregio d’Amore e sol ben ama. V. Può darsi che Bianca Barbazza vivesse parecchi anni rattenuta in onestà dalla trista rimembranza della madre sciagurata, ma alle amiche le quali ne invidiavano la bellezza, ai corteggiatori che non potevano sperare trionfi su lei, a tutta quella società che l’attorniava avida di pettegolezzi e di scandali dové poscia e finalmente recare conforto la voce d’un fatto sicuro: Bianca aveva per amante il marchese Fabio Pepoli e traeva una tresca con lui. Si riferiva il tempo e il luogo de’ loro segreti convegni e nelle conversazioni e nei ritrovi si coglievano senza fatica le loro occhiate bramose e i sorrisi e gli accenni; e il Pepoli ardendo di violenta passione non avvertiva di procedere cauto, e la dama o non sapeva frenare l’impeto suo, o cieca anch’essa d’amore gli consentiva senza troppi riguardi. Forse solo il marito poeta non s’adombrava per la solerzia del marchese in servirgli la moglie e si spiegava ogni cosa con la libertà delle “convenienze cavalleresche„; ma i fratelli di lui, cui premeva intatto il “lustro„ della famiglia, osservavano bene e ascoltavano. Però il conte Guido Antonio trovandosi nell’estate del 1621 a certa festa di ballo, alla quale erano pure gli amanti o si discorreva di loro, disse abbastanza alto da essere udito: — Provvederemo! —²⁷ I Barbazza non scherzavano e i loro bravi erano usi “di fare all’archibugiate ogni giorno„, onde Fabio Pepoli, messo in guardia, volle prevenire il compimento della minaccia con audace prontezza, e d’accordo con gli amici Aldrovandi, Vizani e Riari il 6 luglio su l’ora di notte venne in piazza san Domenico verso casa Barbazza: il luogo era deserto; solo, un po’ lungi dalla porta, Guido Antonio se ne stava al fresco. E su lui precipitarono i giovani cosí all’improvviso che egli non fu in tempo a ritirarsi in casa e dové schermirsi male armato ma con cuor di leone: i colpi piovevano e uno lo feriva al capo; egli indietreggiava urlando, e indietreggiando stramazzò nella chiavica ch’era in mezzo della strada. Cosí fu salvo, perché gli assalitori persuasi d’averlo morto fuggirono e sfuggirono ai fratelli del conte giunti in soccorso. Guido guarí dopo poco della ferita e per attendere a sicura vendetta — ebbe il nome di _vendicatore prudente_ — interruppe il romore dell’accaduto asserendo con tutti di ignorare chi l’avesse aggredito e dando a credere d’essere stato còlto in isbaglio. Non passarono quattro mesi che Guido Antonio incominciò dal mover questione e dal ferire il conte Filippo Aldrovandi, compagno di Fabio Pepoli nella bella impresa contro di lui²⁸: quanto al Pepoli, come malaccorto, avrebbe finito co ’l farsi egli provocatore. Infatti l’ultimo giorno di gennaio del 1622 in via San Mamolo, dove i cittadini carnescialavano al corso delle maschere, Fabio s’imbatté in Guido Antonio e susurrò qualche cosa all’orecchio d’un amico, né, ad un secondo incontro, disse piano queste parole: — Conviene che m’imbatta sempre ad incontrare questa razza di b.... f...! — — Quest’è troppo: andiamo! — disse allora il Barbazza a un suo _confidente_; e l’uno e l’altro furono in due passi a casa a mascherarsi da villani, e armati di _terzette_ tornarono nel corso. Il satellite avrebbe dovuto sparar egli una archibugiata alle spalle del Pepoli quando gli tornasse appresso, ma al momento opportuno gli mancò il coraggio; il conte allora mirò rapido e sí dritto che colpi a morte il marchese; poscia si dileguò tra la folla in confusione per l’accaduto, corse a casa, depose gli abiti di maschera e tornato subito in San Mamolo venne alla farmacia della Pigna, dove giaceva il moribondo, e con voce ferma eppure compassionevole: — Che peccato — esclamò — che questo cavaliere abbia fatto una tal fine! — Ma tosto Guido Antonio, Astorre, Romeo e Giacinto Barbazza con un loro zio, pei quali tutti oramai spirava mal’aria in Bologna, si nascosero in casa di Giambattista e Aldobrandino Malvezzi, loro fratelli uterini, e con l’aiuto di essi scalarono nella notte le mura della città e si diressero a rifugio in Piemonte. Troppo tardi l’indomani fu per ordine del Cardinal Legato pubblicata una grida che proibiva l’andare in maschera “sotto pena di galera et altre pene„ e furono chiuse le porte della città, ad eccezione di quelle di Strada Maggiore e San Felice, per le quali tuttavia non era concesso d’uscire “senza bollettino, sotto pena della vita„²⁹. Fabio Pepoli, dopo ventiquattr’ore di strazio, spirava lasciando il dovere di vendicarlo ai fratelli suoi Guido e Giampaolo. I quali pregarono anzi tutto il Granduca di Toscana d’intromettersi ad accertare se i Malvezzi avessero per caso avuto parte nell’assassinio del loro fratello: il Granduca indusse il Legato Ubaldini a raccogliere prove che i Malvezzi non erano colpevoli; poi egli e il cardinale, per amore di pace, fecero giurare a Giambattista e ad Aldobrandino Malvezzi “su l’onore di veri cavalieri„, e il giuramento porre in scrittura di notaio, che “non avevano dato consiglio aiuto e favore alcuno, né con assistenza né con qualsivoglia altro modo ad eseguire l’assassinio di Fabio Pepoli„, e che mai avrebbero porto “consiglio, favore et aiuto ai signori Barbazza„, né avrebbero mai offesi i Pepoli o “tentato d’offenderli né per sé né per mezzo d’altri„³⁰. Ma non giurarono, furbi!, di non aver aiutati i loro parenti a fuggire. I Barbazza scampati alla forca rimasero molti anni alla corte piemontese: Astorre, il quale ebbe su l’anima parecchi delitti, fu condannato a morte in contumacia, ma ottenne poi grazia nel 1659, “in riguardo alla sua grave età„, pagando quattro mila scudi³¹; e la pace fra le famiglie dei Barbazza e dei Pepoli non fu conchiusa che morti Guido e Giampaolo Pepoli e solo per intromissione dei príncipi di Savoia e di Toscana. Quant’odio dall’amore di Bianca Bentivoglio! VI. E quanto misero il retaggio di Bianca Cappello; retaggio di colpe, di sciagure e drammi foschi! Ancora un mistero: la contessa Barbazza nei sette anni che trascorsero fra la morte del Pepoli e la sua morte, quetò forse, per sconcia avidità dei sensi, ricordi e rimorsi in nuovi amori, finché la frenò e a poco a poco l’uccise il veleno propinatole dai congiunti, o piú tosto patí ella sette anni interi, da prima la cupa fantasia rinnovandole giorno a giorno lo strazio di quella scena — a un colpo d’archibugio l’uomo amato cadere sanguinante e dolorare e gemere tra una folla di maschere — e poi, di pari, consumandola giorno a giorno la corrosione lenta della tisi, se non del veleno e della vendetta maritale? — “Il 15 ottobre 1629 morí Bianca Bentivoglio Barbazza d’una lunghissima e penosissima infermità, che a poco a poco l’andò struggendo; e non fu chi non dubitasse che non le fosse stato dato il diamante a causa della corrispondenza col marchese Fabio Pepoli„³². Troppo lasso di tempo sembra che fosse tra l’offesa e il castigo; ma pure un fatto aggraverebbe sopra Andrea Barbazza il sospetto di uxoricidio: egli compose e pubblicò una canzone, una canzone di ventinove stanze, in morte di sua moglie³³. Da sí vasto ocean d’amari affanni Ov’ondeggio caduto, Deh! chi recando aiuto Sia che mi tragga a riva? E chi consola Naufrago il cor tra le miserie e i danni? So ben che morte sola Può dar fine al martir, posa al cordoglio, Ma sol per piú morir, morir non voglio.... E nel secentesimo di questi e di quest’altri versi sarebbe bastevole e facile prova di ipocrisia e di mal tentato inganno: Quando l’alma di lei che ’l Ciel mi diede Dal _casto_ vel si sciolse E ’l Ciel se la ritolse, Privo restai de l’anima e del core, Orbo di gioie e d’aspre cure erede; Ond’è solo il dolore Che mi sostiene e serba il petto vivo, Benché de l’alma io sia vedovo e privo.... Se non che seguono altri versi per cui converrebbe supporre nel cavaliere Barbazza una perversa sottigliezza a coprire il suo delitto. Egli lamenta in un punto: Vidi.... .... la beltà che tanto amai Farsi preda a maligno Umor, che di sanguigno Foco sparse il bel volto e del bel petto Tinse il candore, e chiuse agli occhi i rai In cui visse il diletto E col diletto Amor, ch’ha per fortuna D’aver la tomba ov’ebbe in pria la cuna....; No! Io sono docile alla commozione della poesia; io odio la malignità nella storia; io credo al diarista Galeati: “Il 29 ottobre 1629 (data certa) morí l’illustrissima signora contessa Bianca del conte Ulisse Bentivogli, di febbre etica„. E con pena sincera do fede a un povero marito che si duole, privo degli occhi languidi consolatori e preganti consolazione della sua moglie soave, cosí: Quegli occhi, dico, a me sí dolci e cari, Ch’ancor nel duol sepolti In me vidi rivolti. Quasi ad uopo maggior languidi e mesti Pietà chiedendo in muti accenti amari.... Pietà! — gli aveva chiesto Bianca con i brividi del malore e del rimorso; ed Andrea le aveva perdonato, son certo, con gentile misericordia di poeta; né, lei seppellita, poté forse resistere a non piangere piú volte nella chiesa del Corpus Domini e a pregare spesso Santa Caterina de’ Vigri, vicino al cui corpo incorrotto è la tomba dei Bentivoglio, che Iddio lo ricongiungesse alla pallida e tremula fiammella della sua Bianca. Canzone, imponi al canto, al pianto freno: Ben so ch’a me non lice La mia cara Euridice D’indi ritorre ove beata splende, Ch’ivi affanno non ha di duol terreno. Ma lieto amor l’accende Che ’n Dio la stringe e con devoto zelo Fa che m’inviti a rimirarla in Cielo. Affettuoso uomo fu Andrea Barbazza: tanto vero, che per il bene che egli volle alla sua nuora impudica, Settimia Mandoni, le male lingue asserirono ottenesse il senatorato ed altri uffici mercè i favori di lei³⁴ tanto vero, che a sessantasei anni s’accese di Silvia Boccaferri, la quale egli, rimasto vedovo quasi vent’anni di Bianca Bentivogli, sposò in Santo Stefano il 30 maggio del 1648. GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO I. Non fu tutto merito e tutta colpa dello zio vicario se Gregorio di giovane scapestrato divenne uomo d’austeri costumi; d’incredulo cattolico fidente calvinista e di fanullone uno scrittore fecondissimo. Già nella fanciullezza e giovinezza prima troppo l’avevano fatto digiunare e dir _pater noster_ e servir messe e baciar mani sporche di preti e di frati quelle due figure paurose del padre Merenda e di Don Grassi. Poiché da sua madre, Isabella Lampugnani, rimasta vedova di Geronimo Leti governatore d’Antea, era stato posto nel 1639 alla scuola de’ gesuiti di Cosenza, ed egli, irrequieto scolaro e incomposto chiericuzzo, era cresciuto dai nove fino quasi ai vent’anni con l’oppressione e il fastidio addosso del Grassi per custode e del Merenda per precettore: tanta oppressione e tale fastidio che quando gli morí la madre e passò in Roma alla tutela dello zio don Augusto, “non poteva piú vedere né chiese né sacerdoti„³⁵. Lo zio, il quale era un po’ petulante, sí, ma in fondo un’ottima pasta d’uomo, e vagheggiava pe ’l nipote la fortuna medesima ch’egli aveva avuta nella prelatura, avvedendosene, con che sbigottimento s’imagini!, pensò dargli a maestro e guida di coscienza quello sciocco del suo cappellano; Non l’avesse mai fatto! Il cappellano si mise a mortificare Gregorio nelle confessioni frequenti e a gravarlo di sbadigliati digiuni e rabbiose recitazioni d’offici, e Gregorio, caduto dalla padella nelle bracie, prese con maggiore ardire a ridere per le strade in faccia ai preti e per le chiese ai santi; a dire qualche porcheriòla; a leggere libri proibiti e ad accarezzare le ragazze. Per dire la verità, che colpa avea lui se le donne vedendolo “fresco, sano, robusto e ben fatto della persona„, gli volgevano occhiate lusingatrici e se egli, piú tosto che ad attendere i beni del sacerdozio, si sentiva “inclinato a godere la dolcezza del maritaggio?„ Basta; còlta un giorno nella chiesa vescovile una bella e docile giovinetta e trattala pudicamente dietro un banco le diede solo sette baci, e poi, cosí per gioco, s’andò a confessare dal cappellano; e questi in penitenza gli ingiunse su ’l serio “di mangiare o almeno ben masticare sette fila di paglia della lunghezza ciascuna di un piede, per causa che la confessione portava sette baci„.³⁶ Era dunque l’esorbitanza d’una ridicola e proterva severità, e Gregorio stucco e ristucco piantò lo zio e si recò a Milano dai parenti della madre, presso cui stette due anni. Ma pur troppo don Augusto Leti saliva rapido la scala degli uffici ecclesiastici, e divenuto vicario d’Orvieto con in vista la nomina a vescovo, volle ancora il nipote con sé. Lo riebbe infatti, e cominciò ad esortarlo con paterna dolcezza che, non avendo beni sufficenti per vivere gentiluomo, si facesse prete o alla peggio soldato, e onorasse la famiglia nella maniera di suo padre. Gregorio scuoteva la testa: Né armi né brevario! Piú tosto medico o legale; ma lo zio vicario, che con ragione aveva poca fede nella scienza e nella legge umana, scuoteva egli pure il capo sospirando e scongiurando Iddio, e alla fine lasciò Gregorio libero di sé e della roba sua: chi avrebbe potuto frenarlo? Il giovinotto lieto e avventato come un puledro che si senta le briglie su ’l collo, vagò alcun tempo per l’Italia e sprecò gran parte dei quattrini lasciatigli dalla madre; indi, com’era naturale, fece ritorno allo zio già vescovo in Acquapendente, che l’accolse tuttavia con bontà e con speranza di rimetterlo per la strada buona. Ma in Gregorio non c’era solo lo scapato, c’era l’incredulo, e che guajo per monsignor vescovo avere un nipote il quale non voleva piú comunicarsi! — Gregorio, Gregorio — gli diceva —: se tu non pigli altra strada, o che tu morrai eretico, o che sarai processato in qualche inquisizione! —³⁷ Quand’ecco un giorno di settembre del 1658 monsignor vescovo cerca il nipote e non lo trova; e una giovine, Antonia Ferretti, che il nipote di monsignore aveva fatta uscire di monastero con promessa di matrimonio, cerca l’amante e non lo trova: né lo zio seppe piú nulla di lui fino a che apprese ch’egli si perdeva in Bologna nell’amore d’una cantatrice; né la fidanzata ebbe piú altra notizia di lui fino al dí in cui le fu detto ch’egli era a Ginevra calvinista e ammogliato! Tutto vero; perché da Acquapendente Gregorio era corso ancora qua e là in cerca di vita allegra, e venuto a Bologna con la cantante e compiute chi sa quali pazzie, aveva poi considerato seco medesimo come seguitando di tal passo avrebbe in poco tempo dato fondo a quel po’ di roba che gli rimaneva, e come il meglio gli sarebbe stato recarsi a Parigi per cercarvi fortuna alla corte. Cosí postosi subito in viaggio e giunto a Valenza, vi aveva ottenuta la protezione del marchese di Valavoir generale dell’armi francesi in Italia; s’era inteso con un capitano ugonotto a rilevare i mali della Chiesa di Roma, e poscia s’era invaghito di portarsi a Ginevra, luogo di paradiso per la libertà del governo e per la rettitudine del calvinismo che vi si professava. Rimasto a Ginevra alcuni mesi dopo fatta l’abiura e passato a Losanna, qua aveva stretta amicizia co ’l celebre medico Guerin, padre d’una ragazza bellissima diciottenne; e come il medico filosofo l’innamorava sempre piú della riforma, egli pian pianino innamorava di sé la figliuola di lui, la quale presa in moglie tre mesi dopo, s’era ricondotto in Ginevra. Appena fu risaputo ch’egli abitava in quel covo di eretici, il povero zio e la povera Ferretti gli scrissero amorosamente che tornasse. “Caro nipote, ritorna per darmi la vita e non permettere che uno zio, un vescovo di Santa Chiesa, uno che ti ha servito da padre, muoia da un colpo scoccato, se non dal tuo braccio, dal tuo cuore..... Se hai moglie conducila teco, perché tanto piú gloriosa sarà la tua conversione„ —³⁸. — “Corre voce che siete già maritato, ma questo è dubbioso; ma quando vero fosse, credo di poter meritare il vostro amore nuziale quanto ogni altra, e voi sapete che gli maritaggi degli eretici qui si scancellano con l’acqua santa.... Venite dunque, caro mio bene, care mie viscere, caro mio cuore, per levare da qualche disperattione la vostra serva che vi desidera sposa„³⁹. Preghiere vane: meglio dello zio vescovo, il babbo Guerin; meglio che Antonia era Maria; meglio che il cattolicismo, il calvinismo, e che Acquapendente, Ginevra; e per Gregorio Leti era cominciata una vita nuova di fede sincera, d’affetti domestici, di operosità e d’austerità di costumi. Già: per religione e amor della moglie il libertino d’una volta diventò e si mantenne rigido custode di sé stesso e ammonitore della morale negli altri; di che dan fede le molte sue lettere a chi caduto in fallo l’andò richiedendo di consigli e di protezione, e accertano le prove di virtú ch’egli dié in assai circostanze pericolose. Ed io credo, non con molta ammirazione, ch’egli riuscisse a resistere pure ai vezzi di quella singolare donnina che dal Sainte-Beuve fu chiamata la Manon Lescaut della corte di Luigi XIV; di quella singolare donnina che ora lusinga la mia fantasia, tarda ricercatrice di celebrate beltà, con la bizzarria e la grazia e il sorriso ond’ella nella vita breve passò per tante colpe e vicende. II. Sidonia di Lenoncourt, orfanella del marchese di Mariole, a quattordici anni vinse la volontà del Re Sole negando di sposare un fratello del ministro Colbert; ma poiché un marito le bisognava, si cesse in moglie a un nipote del maresciallo di Villeroy, il marchese di Courcelles. E fu gran male: la notte stessa delle nozze il marchese volgare e cattivo l’avvertí ch’ei “pretendeva fosse per riuscir piú savia della madre„; ella si ribellò all’insulto e non “si consumò il maritaggio„, e poi inacerbitosi il dissidio, un bel giorno, quando la gente diceva tuttavia che “la signora Courcelles non aveva ricevuto dal marito che il nome„, Sidonia s’indusse a fuggire. Ahi che il marito la raggiunse tre miglia fuori di Parigi e la “ritenne piú stretta„!⁴⁰ Ma come la giovine meditante vendetta acerba ebbe la ventura d’accendere della sua bellezza nient’altri che il Louvois, il famoso rivale del Colbert, e s’avvide che se essa avesse consentito all’innamorato, l’indegno marchese avrebbe assentito in silenzio (troppo onore che il ministro Louvois si accontentasse di sua moglie!), oh allora ella, per riuscire a un supremo trionfo, adoperò sagacia e fascino e ogni arte a sedurre proprio un cugino di suo marito, il bel cavaliere di Villeroy, e riuscí infatti a strapparlo dalle avide braccia della principessa di Monaco. La corte in cui una somma ipocrisia velava una somma corruzione, si levò a scagliar pietre su la fortunata e audace peccatrice, e gl’intrighi della principessa di Monaco e la rabbia del Louvois la fecero rinchiudere in quel convento medesimo delle Figliuole di Maria dove gemeva per odio maritale l’“illustre„ avventuriera Maria Mancini, la nipote del cardinal Mazarino. È naturale che la Mancini accogliesse in amicizia l’allegra compagna di sfortuna, e come il sangue bolliva nelle loro vene e bisognava sfogassero contro qualcuno il desiderio vivo della ribellione, s’accordarono subito in far ammattire quelle povere monache che avevano l’obbligo di custodirle. Quante birichinate facevano mai e di che gusto rideva in apprenderle la maestà di Luigi XIV! Versavan l’inchiostro nelle pile dell’acqua benedetta; s’aizzavano contro di notte, pe ’l dormitorio, de’ cagnolini e urlavan _tiäut_ (il grido dei cacciatori di cervi); riempivano d’acqua delle grandi casse perché sfuggendo e trapassando a poco a poco il piancito andasse a sgocciolare sui letti delle suore nel piano di sotto; snervavano le suore vecchie, scelte per accompagnarle a passeggio, in lunghissime e rapide corse; e cosí via. E che bene si volessero quelle due... — come dire? — aristocratiche sgualdrinelle, provarono l’una all’altra una sera che udendo rumore di cavalieri attorno il convento di Chelles, dove erano state trasportate dal chiostro delle Figliuole di Maria, e credendo la Mancini fosse il marito suo che venisse con compagni a rapirla, s’aiutarono in fretta a nascondersi; e poiché nella grata del parlatorio era un buco, apertovi giorni innanzi per dare ingresso a un pasticcio di lepre, allargarono il buco e, con che stento Dio ve ’l dica, passarono attraverso di quello. Ma l’allarme fu falso; e però esse si disposero zitte e chete a rientrare per la via medesima onde erano uscite. La Courcelles rientrò con discreta fatica; la Mancini invece rimase piú d’un quarto d’ora tra due ferri della grata che la stringevano alle costole in guisa da non consentirle né di procedere né di retrocedere: tira e tira, finalmente la Courcelles l’ebbe a sé oramai svenuta del tutto. Se non che a pena ottennero licenza d’uscire libere s’inimicarono acerbamente; né ciò poteva non accadere per la conformità degli animi e delle voglie, la quale le condusse ad innamorarsi entrambe d’un uomo medesimo: il giovane Cavoy. Tira e tira, anche questa volta la vittoria fu per Sidonia; e Maria andata un giorno al palazzo dell’odiosa amica (pur nel seicento le signore congiunte da un odio cordiale non ripugnavano dal farsi visita) e ricevuto l’annunzio che madama non era in casa mentre alla porta stava in attesa la carrozza del Cavoy, si vendicò rivelando la tresca al signor di Courcelles. Cosí il marchese, che faceva un po’ la corte alla Mancini, fu costretto a sfidare con un pretesto qualunque il dolce amatore di sua moglie⁴¹. La notizia del duello, per cui il Cavoy si buscò una non piccola ferita ad un braccio, giunse tosto all’orecchio del re, il quale, fiero in castigare i duellatori, comandò che i due cavalieri, invano accorsi a pregarlo di perdono, fossero condotti alla Conciergerie e la loro colpa fosse sottoposta al giudizio del parlamento. I rivali allora a convincere che s’eran battuti non per odio, ma per “casuale rancontro„, e che anzi si volevano il piú gran bene del mondo, si ridussero a dormire nella medesima camera; traditore e tradito mangiarono e giocarono insieme; e furono assolti⁴². Non sfuggí per contro a pena aspra Sidonia; alla pena di sofferire nel castello di Maine la sorveglianza della suocera vecchia e malevola. Che fare a dispetto di questa? Peggio di prima! Con chi? Con qualcuno — e per darsi buon tempo trovò un paggio del vescovo di Chartres, un giovine cosí valoroso in distrarla, che delle sue distrazioni ella ebbe presto segni visibili addosso. Inutile dunque sottrarsi; e il marchese si richiamò al parlamento: convinta adultera, ella fu condannata a perpetua clausura co ’l capo raso. Ma rimaneva tuttavia una speranza in appellarsi al tribunale della Tournelle, e ciò fece Sidonia; e frattanto riuscí a fuggire dal carcere con uno strattagemma assai semplice⁴³. La sua cameriera, la quale aveva licenza d’entrare e di uscire dalla prigione, finse un doloroso mal di denti e per due giorni si mostrò ai custodi co ’l viso tutto fasciato e nascosto tra i veli in modo che appena le si vedevano gli occhi: il terzo giorno la padrona usci in vece e in veste della cameriera; né alcuno s’avvide di quell’inganno prima che ella con la carrozza gli abiti e i denari d’un antico amante si fosse messa in sicuro. La serva fedele venne condotta fuori del regno, e Sidonia, scampando alla caccia del tristo marito, si recò a Digione, e da Digione a Ginevra, dove una mattina, nell’osteria dei tre Re, presentò una lettera commendatizia a un noto scrittore calvinista: Gregorio Leti. — “Non crediate, signor Leti — gli disse la procace e sagace marchesa —, che io sia qui per male affare: la ragione è che il mio marito mi vuole et io non lo voglio„. Poverina! E che occhi, mio Dio!; che voce, che bocca, che guancie, che.... Lasciamolo dire al Leti stesso: “oh che poppe! (certe cose si vedevano per indulgenza della moda) oh che mammelle!„; e, a raccogliere la descrizione di tutto il resto in un’espressione sola, “che Paradiso terrestre!„⁴⁴ Ma il Leti era scialbo pittore, né alcuno ritrasse meglio madame di Courcelles che madame di Courcelles: il ritratto ch’essa si fece è opera di cesello ardito arguto graziosissimo. — “Confesserò che se non sono una gran bellezza sono tuttavia una delle piú amabili creature che si possan vedere: nell’aspetto e nei modi non ho cosa che dispiaccia e tutto in me par fatto per innamorare; e le persone piú dissimili d’indole e di animo si trovano d’accordo nel dire che non si può vedermi senza volermi bene. Sono alta, con figura mirabile, con bei capelli bruni, proprio come convengono a rilevare la freschezza e la bellezza della mia carnagione, la quale per altro ha qua e là dei segni non radi di vaiolo. I miei occhi sono grandi, né celesti né neri, ma di certa tinta fra le due singolarmente piacevole, e nel tenerli un po’ socchiusi, per abitudine, non per affettazione, do al mio sguardo una tenerezza e vaghezza senza pari. Ho il viso d’una regolarità perfetta: è vero che non ho la bocca molto piccola, ma non l’ho poi mica tanto grande. Qualcuno afferma che nelle proporzioni giuste della bellezza io difetterei per il labbro inferiore un poco troppo sporgente; ma io credo mi facciano questa censura perché non possono farmene altre, e perdóno a quelli che dicono ch’io non ho la bocca del tutto regolare, se per loro è un difetto che mi dà un’ineffabile grazia e una vaga vivacità nel riso e nei moti del viso. “J’ai enfin — nella traduzione il ritratto perde, tardi me n’avveggo, colore e finezza — j’ai enfin la bouche bien taillée, les lèvres admirables, les dents de couleur de perle; le front, le joues, le tour du visage beaux; la gorge bien taillée; les mains divines; les bras passables, c’est à dire un peu maigres; mais je trouve de la consolation à ce malheur par le plaisir d’avoir les plus belles jambes du monde. Je chante bien sans beaucoup de méthode; j’ai même assez de musique pour me tirer d’affaire avec les connaisseurs. Mais les plus grand charme de ma voix est dans sa douceur et la tendresse qu’elle inspire; et j’ai enfin des armes de toute espèce pour plaire, et jusqu’ici je ne m’en suis jamais servie sans succès. Pour de l’esprit, j’en ai plus que personne; je l’ai naturel, plaisant, badin, capable aussi des grandes choses, si je voulais m’y appliquer. J’ai des lumières et connais mieux que personne ce que je devrais faire, quoique je ne la fasse quasi jamais —„.⁴⁵ Gregorio Leti, adunque, rapito d’ammirazione, ma pur senza sospetto o desiderio di ricadere nelle antiche voglie, alloggiò la marchesa in casa d’una signora per bene e la introdusse nella miglior società ginevrina; e come l’accompagnava egli per tutto, forse tratto dalla vanità lusingata — per vederla “era cosí grande il concorso nelle strade che ci voleva mezz’ora a far cento passi„, — anche si accese un pochino di lei. Tuttavia capí presto che un abito nero e semplice non poteva reggere in confronto alle “casacche di velluto e alle spade d’oro e d’argento„ delle quali fu ressa intorno a Sidonia, e richiamatosi ancora a sé medesimo riprese i “libri e gli scartafacci„ ch’aveva banditi e continuò la vita di Filippo II.⁴⁶ Intanto madame di Courcelles trovava impunemente e liberalmente offeriva il piacere di agevoli amori e dominava in sovranità di grazie e di spirito tutta Ginevra. Regina, con mutabilità fanciullesca accarezzava e incrudeliva: un capitano del reggimento d’Orléans assunto tra gli altri ai suoi baci e poi abbattuto quand’era piú folle di gioia con inganni e disprezzo, si vendicò dando a leggere le lettere di lei agli amici; e fu una copia di queste lettere che Chardon de la Rochette rinvenne e diede alle stampe nel milleottocentotto. Ma d’improvviso Sidonia lasciò la Svizzera, riprese la via di Parigi, si fece rinchiudere in carcere. Era morto il marchese marito ed ella sperava, anzi sapeva per certo che con la prigionia volontaria avrebbe meritata “una sentenza onorevole che le riacquistasse, diceva cosí per dire, la riputazione, e, quel che le importava davvero, una gran parte della sua dote„⁴⁷. Gregorio Leti, il quale forse non pensava piú a lei, trovandosi a Parigi nell’agosto del 1679 ricevette una letterina proprio di lei, che tutt’allegra lo pregava d’una visita “non piú corta d’una giornata„; ricordasse che altra volta le aveva insegnato essere opera di pietà visitare i prigionieri; di piú, venisse a consolarla della morte di suo marito, alla qual consolazione la troverebbe “molto ben disposta„⁴⁸. Il Leti, che pure era disinvolto, che pure in gioventú aveva baciate le ragazze in chiesa, rispose con una misera lettera impacciandosi a scherzare intorno la prigionia di madama e alla libertà delle donne francesi, e a dichiarare, tra molte lodi iperboliche e proteste d’affetto, che non acconsentirebbe alla visita domandata. Onde a ragione la marchesa gli riscrisse chiamandolo “debole d’animo„, e burlandolo come uomo il quale “stava chiuso in casa fino a sedici ore di ventiquattro per scriver la vita dei morti„, e con un cuore “piú piccolo di quello d’un polpastrello negava di soffrire la clausura di dodici ore con una dama in anima e in corpo.„ Insomma, non cedere al desiderio e allo spirito di lei era impossibile; ma Gregorio, dibattuto fra la necessità di non parere ridevolmente timido e il dubbio di non poter resistere alla tentazione, volle prima porre in sicurezza la sua continenza con una seconda lettera: “Di grazia, Madama, diciamo la cosa come passa, senza mascherarla: crede ella che sia una buona opera d’andare a visitarvi in prigione? Bagatelle!, anzi si corre pericolo d’entrar, come l’apostolo Pietro, santo nel pretorio di Pilato et uscirne carico di colpe. E se una serva ebbe tanta forza con un povero vecchiarello, che farà una gran dama, di tanta grazia e di tanta beltà, con uno che gode ancora il vantaggio della virilità? Madama, la bellezza in una dama è un dardo de’ piú acuti et una saetta delle piú fiere, et ivi farà la piaga maggiore dove piú dura troverà la pelle„⁴⁹. Cosí io penso che Sidonia di Lenoncourt dové seguire d’un’occhiata compassionevole il Leti uscente dalla sua gaia prigione e ch’ella dové mormorare scrollando le spalle fra dispettosa e annoiata: “Quant’è sciocco questo grande scrittore!„ III. Perché egli era già divenuto in fama di grande scrittore, e le sue opere levavan rumore in tutta Europa: già avvolto di carezze e di minacce, di ossequi e di calunnie, aveva sperimentato, quantunque invano, come il dire la verità o quel che gli sembrava la verità, fosse travagliosa impresa. Ginevra, dove, quasi in seconda patria, era stato ricolmo d’onori, dove, primo italiano il quale ne fosse parso degno, era stato fatto “cittadino borghese„, non fu piú luogo per lui dopo che ebbe dato di cozzo nell’“odio teologico„ di quei “predicanti„; e perché Luigi XIV lo lusingava di promesse se accettasse la nomina di suo storico, nel 1680 si portò con la famiglia in Parigi. Ma nella prima sua visita al ministro Colbert capí che al re non piaceva uno storico calvinista, e com’egli dichiarò che non sarebbe andato mai dal padre La Chaise, il quale aveva ricevuto incarico di rimetterlo nel “giron della Chiesa„, il ministro incollerito l’avverti “che il re avrebbe trovato presto la maniera di farvelo andare„. Cosí il Leti, che, sia detto a sua lode, rinunciava a un lauto stipendio per non rinunciare ai suoi princípi, s’allontanò incontanente da Parigi e a Calais s’imbarcò per l’Inghilerra.⁵⁰ Ed ivi Carlo II l’accolse con molta degnazione, gli donò mille scudi e gli diede incarico di scrivere la storia del regno inglese; grave compito per altri che per il Leti, il quale la condusse a termine in breve tempo. Ma per avervi dette, al solito, cose che era meglio tacere, e sopra tutto per aver fatta certa profezia, “che se non si portava impedimento acciò non cadesse in successore cattolico la corona, si sarebbero viste tragiche scene di dentro e di fuori„, gli furon conceduti appena dieci giorni per uscire dal regno. Si rifugiò allora ad Amsterdam; e là finalmente trovò tutta la libertà che desiderava; ebbe l’ufficio di storiografo per gli Stati dell’Aja; ricevette onori piú che altrove: ivi chiudeva il secolo decimosettimo stampando la sua centesima opera e cominciava il secolo decimottavo lavorando, in età di settant’anni, quattordici ore al giorno intorno la _Vita di Carlo V_, la quale finí poco prima della vita sua, nel 1701. Fibra di ferro ebbe costui!; e benché anche adesso l’Italia non manchi di chi dà troppo a stampare, non avrà piú mai, speriamo, chi, per riuscire a comporre cento volumi, resista come il Leti a scrivere tre opere per volta consumando in ciascuna due giorni della settimana, e in ogni settimana faticando tre giorni dodici ore e tre altri, sei. Veramente, a differenza di molti instancabili scrittori odierni, non mancava d’ingegno; e nelle storie procedendo audace sin fuori della giustizia e feroce nelle satire sin fuori dell’onestà, commoveva e seduceva moltitudini di lettori. Né è strano che molti, pure cattolici, gli volessero gran bene, perché egli fu nella vita quale nelle opere: aperto, e cosí naturalmente arguto e ardito da movere incontro anche a gravissimi pericoli con sangue freddo e con motti ridevoli. Quando si trovava a Ginevra gli giunse un giorno questo avviso di Giuseppe Corso, libraio romano provveditore della casa Panfili: — _Signor Gregorio, perché l’amo, la sua vita mi è cara: il Signor Principe Camillo Panfili, ch’è persuaso già che V. S. sia autore della Vita di donna Olimpia sua madre, ha giurato di spender cento mila doppie per farla pugnalare_ —; ed egli, gettato l’angoscioso biglietto nel fuoco, “acciò con questo se n’estinguesse la memoria, e preso un gran foglio di carta — e reale di piú, per fargliela costar piú cara alla posta —„ rispose all’amico: — _Signor Gioseppe, il Signor Principe Camillo è troppo benigno e troppo economico per spender cento mila doppie per farmi pugnalare, se con dieci potrebbe farlo due volte._ —⁵¹ In Londra, essendo la corte in tempesta per colpa della sua storia, corse a lui, una sera alle dieci, il fratello di sua moglie, il quale atterrito l’avvisò da parte di milord Cernis che il duca di York aveva dato ordine di assassinarlo: nel nome di Dio, guardasse la sua persona! — “E per questo vieni tu a svegliare il mio sonno?„ — gridò egli al cognato; e pieno d’ira lo coprí d’ingiurie; poi messolo fuori della camera riprese a dormire mentre quelli della famiglia stavano in pianti. L’indomani non fu loro possibile impedirgli di uscire, e agli amici che incontrandolo meravigliati gli ripetevano sotto voce il consiglio di lord Cernis, il Leti rispondeva ridendo: — “Il signor duca ha il cuore troppo augusto per risentirsi con la morte e con la prigionia della morsicatura d’una mosca„. — E cosí fece ogni volta che gli riferirono una vendetta imminente. Per tanta spontaneità e vivacità di spirito; per la facilità sua a cogliere, l’attitudine ad imaginare, la capacità a rendere tipi diversi in azione sarcastica, Gregorio Leti fu certo uno scrittore di satire singolare nel seicento e per noi degno di molta considerazione. È vero che ai nostri giorni niuno s’occupò di lui convenientemente, forse perché le sue satire derivano in gran parte la materia da pasquinate che si possono conoscere per altra via; forse perché feriscono le colpe dei papi e la corruzione de’ sacerdoti alti e bassi con un fine religioso o politico di cui oggi è troppo difficile avvertire la sincerità e l’importanza; forse, piú tosto, perché appariscono in gran parte libelli osceni. Infatti — contraddizione curiosa! — il calvinista riformato pur ne’ costumi è sconcio scrittore; ma, e come avrebbe potuto battere i peccati de’ preti senza essere tale? Del resto, altri vegga il danno ch’egli poté recare alla moralità: a me basta dare a vedere ch’egli ebbe forza e vena satirica e che meglio la rivelò appunto nelle composizioni piú lubriche. E meglio fra tutte, parmi, tant’è spietato e giocondo e acuto per rappresentazione di tipi, in quella intitolata.... — mal titolo, e bisogna coraggio, o pudibondo lettore, — _Il Puttanismo romano_.⁵² IV. Nell’agosto del 1666 sembrava che la santità di Alessandro settimo (Fabio Chigi senese) si disponesse davvero ad esaudire coloro che lo desideravano morto e ad accontentare in ispecial guisa le donne, cui gran mali eran venuti dal suo pontificato — “la nazione senese ha per una certa ragione d’istinto naturale.... diretta e implacabile l’antipatia contro il sesso muliebre„ —, e il 20 di quel mese stesso per Roma corse lieta la voce che il papa traeva gli ultimi respiri. Onde in quel dí “si videro le patriarchesse del bordello„ e molte loro emule dell’aristocrazia “con sollecita e esatta diligenza girar in diverse pratiche, stringersi in diversi negoziati e proponere diversi trattati per vedere in ogni modo possibile di far succedere l’elezione del nuovo Pontefice in alcuna creatura loro, o almeno in alcuno delli soggetti che per ragione di genio.... sapessero essere aderenti al loro partito e se ne fussero potute liberamente fidare....„ Come s’affaccendavano a ricercare le compagne per le ville intorno la città e ad inviare avvisi a quelle ch’erano a Frascati e nei luoghi vicini. Rintracciatesi, si composero in gruppi e ciascun gruppo scelse un nome di cardinale da proporre a pontefice. Cosí “Madonna Angela Sala, serenissima decana del bordello, con il suo squadron volante s’adoprava.... per l’inclusione del cardinale Spadino detto Santa Susanna„, che “aveva gagliardamente assicurata la loro fede„; Nina Barcarola in vece, nella quale era riconosciuta da molte una certa superiorità, essendo ella tutta cosa di Ravizza prelato possente in Vaticano, chiedeva voti per il Celsi protettore del suo Ravizza e seduceva ad aiutarla Nina Pandolfina, Nina delle Cannuccie, Maria Vittoria delle Masse; tra le dame, quella detta la Regina “si faceva avanti con la nominazione d’Azzolino Maldachino„, ma la duchessa Mattei, per ragioni d’igiene, preferiva il Bonelli, “non ostante la sua ispida e irsuta fisonomia„: l’Adrianella infervorandosi per il Rospigliosi, “vecchio nel mestiere, faceto nella conversazione, libero nel tratto„, contrastava colla principessa di Rossano, a cui solo l’Odescalchi pareva un “soggetto degno e un uomo di buona volontà„. Altre sostenevano altri, ed era facile capire che senza un lungo conclave non sarebbero riuscite ad accordo. Però il giorno 22 centoquattro donnine condotte da Angela Sala vollero raccogliersi a congresso, sole, senza le dame, nella via delle Vaschette. Ma l’adunanza ebbe principio non buono, perché gli “affezionati assistenti„ di quelle signore “con cotal impeto fecero ressa alla porta, che, non volendo l’un cedere.... luogo all’altro„, vennero alle mani e si maltrattarono: il canonico Scotti restò tutto pesto; l’abate Pizzisio perdette il naso; il cardinale Acquaviva patí una stretta funesta alle reni; monsignor Assarini n’usci tutto spelato, e peggio ancora, monsignor Altemps cadde all’indietro e la sua testa, che non si fracassò per miracolo, s’enfiò ad un enorme bernoccolo. Pur le “conclaviste„, ottenuto finalmente il silenzio, incominciavano la discussione, quand’ecco, recando nuova cagione di rumore, entrare con fare “sprezzante ma disinvolto„, assai dame, le quali pretendevano aver parte al congresso; né fu picciol merito della Regina se furono accolte in non trista maniera. Anzi la Regina, la quale era parlatrice larga e forbita, dopo aver proposto e fatto stabilire che da quel dí in poi “tanto le dame quanto le.... (quel tal nome che ha assonanza con _dame_) andassero al pari e senza alcuna immaginabile distinzione, e che.... (quello stesso nome al singolare) e _dama_ volesse dire l’istesso„, mise in campo l’elezione di Azzolino o di Maldachino. Ella si teneva certa che il primo concederebbe: 1.º una bolla che dichiarasse lecito ai religiosi d’andare.... “senz’alcun disturbo o pericolo„ a.... fare visite piacevoli; 2.º “la facoltà„ alle donne maritate o libere “di cavarsi la fantasia„, immuni “da vergogna e da pena, quando e quanto loro paresse„; 3.º l’espulsione da Roma di tutta la “genia de’ monsignori senesi„; 4.º.... — Ma questa io non la dico —. Se dalla nomina dell’Azzolino si ricavava tutto ciò, continuava la Regina delle dame, che importava s’egli era “una bestia cosí brutta„, se aveva “un viso cosí deforme, un tratto cosí rustico, una figura cosí mal fatta?„ Ma quando costui non soddisfacesse in alcun modo, ella garantiva questi altri vantaggi da un papa Maldachino: 1.º diverrebbero padrone d’andar dove loro piacerebbe, anche in palazzo con lui, e rimarrebbero libere d’ogni angheria; 2.º libere anche da quegli “scrocconi„ in mano dei quali dovevano stare durante le loro infermità; 3.º sarebbero istituite tra loro “le dignità civili e di Rota, Signatura e Camera„, ove entrerebbe una presidentessa a provvedere contro le impertinenze dei prelati; 4.º un concistoro vedrebbe di stabilire che i papi pigliassero moglie. E se Maldachino è brutto, ricordate, — aggiungeva la Regina — che “le pere tanto sono piú buone quanto sono piú brutte„. Già ella, conchiuso il suo lungo e bel discorso, s’era seduta, quando s’alzò l’Adrianella e “con volto ridente, benché non gran cosa, fatta una bella e graziosetta ma umil riverenza circolare„, cominciò a dire che quanto aveva promesso Sua Maestà tornava a solo utile delle.... signore pubbliche; che la confusione delle dame con esse non le piaceva affatto perché veniva a perdere “tutta la fatica et tutta la diligenza, che aveva usata in vita sua, di farsi stimar da dama se bene non fosse, e di esser creduta onesta se bene non era„, e che a lei bisognava soltanto un po’ di dominio, il quale sperava dal Rospigliosi. Ma Eleonora la Barcarola l’interruppe: la signora Adrianella pensava troppo a sé, dove ella, che pure aveva fatto Ravizza quello che era, e molto avrebbe potuto attendere dal Celsi, acconsentiva alla proposta della Regina, desiderando il vantaggio di tutte le compagne sue. E l’Adrianella a rispondere poco a tono e a insistere che fidarsi dei Celsi e dei Ravizza era pazzia. Ma come Dio volle il battibecco tra lor due finí e si fece avanti la “reverenda madre decana„, la quale “dopo di aver fatto da trenta smorfie di conto, cominciò a dire il fatto suo....„. Costei, a differenza della Regina, discorreva balzellando e con la sguaiata bonarietà e smaccata gaiezza che è propria delle vecchie sue uguali. Per lasciare comprendere di quanta esperienza era ricca si fece prima a raccogliere la storia della sua vita; poi vantò lo studio che poneva nel “formare„ e reggere le sue allieve, e citava fatti; poi, accorgendosi di andar per le lunghe prometteva di spicciarsi in due parole.... Ella, Ciccia dello struzzo venuta da Frascati e molt’altre avrebbero dunque preferito il cardinale Santa Susanna, in riguardo alla grande amicizia che le legava all’abate Bernardino nipote di lui, ma pur finivano con appagarsi del Maldachino. Maldachino?: “zitto zitto! — diceva a voce piú bassa e co ’l gesto di chi si prepara al racconto d’un bel caso; e rammentava come una volta lo vestirono da dama. Lo conosceva, insomma, per un buon ragazzo e non lo credeva “capace di distinguere il ben dal male.„ “Non aveva appena questa finito con altrettante smorfie, che incontanente ritornò a discorrere la Regina, e fatto prima un nobile et erudito ringraziamento alle pronte esibizioni della decana e.... stesasi ancora in un lungo encomio sopra le di lei qualità..., voltatasi alle altre....„ le richiese della loro opinione. “Datesi quelle giovinotte una guardata, scappò tra l’altre a parlare la prima Nina Fiorentina con un proemio di dicerie e di tratti poetici piacevolmente infilzati, che parve una pasquella che allora fosse uscita dalla cima di Monte Alcino o da Pistoia, e poscia fatto un esame generale a tutti li cardinali, e avendo ritrovato a chi il collare torto, a chi li calzoni corti, a chi il naso troppo piccolo, e chi troppo stretto in cintura, volando or qua or là, si posò alla fine sopra Bandinello. Al sentir tal nome saltò fuori la paesana sua, che era Margherita, e con uno strillo da disperata: — Oh affè di Dio non si poteva dir meglio!; cotesto costí vogliamo al certo, signor sí!„ — Ma le altre gravemente tutte in coro: — “È senese, nihil!, è senese, nihil!„ — (allusione alla forma di procedimento che “nelle cause de’ miserabili„ seguiva ogni giorno “l’ignorantissima canaglia della Signatura di Giustizia„). Escluso il Bandinelli; la principessa di Rossano adduceva le ragioni per cui le sembrava migliore l’Odescalchi, quando la fece ristare gran rumore di gente che veniva dalla parte di strada: era la signora Nina Stagnarina, la quale con un corteggio di sgualdrinelle entrava a lamentarsi di non aver ricevuto invito alcuno al conclave. Fu pronta a sgridarla la Rossano e a farla tacere ed uscire con ragioni molte e tali che io non ripeto perché sbigottiscono anche me; ma la principessa non poté subito riprendere l’interrotto discorso tanto le “conclaviste„ si lamentavano d’essere stanche, né ci volle meno del potere della Regina per ricondurle al silenzio. Finalmente la Rossano, con “un viso tra il brusco e il dolce, fatto all’usanza d’una pizza da un baiocco„, ebbe agio a ritesser le lodi dell’Odescalchi “un uomo da bene, uno spirito puro, un animo dotato di grandi virtú....„; — Un gesuita falso! — gridò la Brigidaccia impedendole di proseguire. Nuccia Belluccia, che aveva dalla sua Nuccia delle cannuccie, si levò poscia ad esprimere il suo desiderio di nominare “un buon fratone„, e fu tratto in ballo fra Silvio de’ Vecchi. Piú tosto poi il Celsi! — esclamava Nina Barcarola; e altre: — Meglio Santa Susanna! — Meglio il padre Caravita! — Era tempo di por termine al diverbio, e ciò fece la Regina sospendendo il concistoro al modo stesso — questo paragone lo posso fare — onde ogni bravo presidente termina ogni consiglio tumultuoso, e dicendo che per quel giorno bastava essersi persuase della difficoltà della questione, e che in altra adunanza (la indisse per la settima prossima) sarebbero venute a deliberare ultimamente. E la Eleonora Adrianella, “la quale, per esser tra l’altre forse la piú astuta e la piú pratica delle cose del mondo, aveva in testa di far riuscire la regola che a fare il Papa ci vuole raggiro, e con ingannare il compagno si gira tutta questa macchina del prelatismo, si alzò a dire quattro barzellette per licenziare il conclave„, trovando pur modo di pungere un poco la fortunata Regina. Ma allorché levatesi tutte in piedi stavano per andarsene, giunse d’improvviso Stecchino principe del bordello, il quale, “tutto affannato e afflitto, datosi di mano al cappello e fatta una riverenza a mezza luna con quelle sue gambe storte, cominciò a mezzo il congresso, con mille sospiri e quasi sommerso in un torrente di lacrime, ad ululare in questa maniera: Siamo rovinati, siamo spediti, oh poverini noi! Oh disgrazie della natura, oh malvagità delle stelle!: il Papa sta meglio! — “Parve che a quelle misere, al suono di queste voci, uscisse l’anima e svanisse lo spirito„; e sola ad una rimase la forza di interrogarlo. Ah! — egli si era introdotto in Palazzo e già aveva saputo che “mancavano pochi minuti alla comune felicità, quando una straordinaria allegrezza di quei matti di là dentro lo aveva fatto cadere negli abissi delle miserie„. E cosí avvenne che tutte quelle signore se n’uscirono piangendo e lamentando dal luogo ove eran entrate piene di letizia. — Ma io dubito molto che questo riassunto possa lasciare in chi mi legge la vivace ed efficace impressione che il piccolo libro lasciò in me, nauseato lettore di cose del seicento. ———— In proposito del qual _Puttanismo_ vo’ riferire un’altro aneddoto non inutile anch’esso alla conoscenza del Leti e dei suoi tempi. Nel 1675, a Ginevra, fu spedita a Gregorio Leti una lettera da certa Suor Agnese Mansola, la quale godeva rinnovarglisi nella memoria come colei che già molt’anni innanzi aveva servita da cameriera la sorella di lui, a Milano, e da lui stesso, quando la chiamavano ancora Bellottola, aveva ricevute non poche carezze. Ed essa gli raccontava che morta la sua prima e buona padrona era stata traviata da un marchese e poi da un abate romano, il quale l’aveva indotta a recarsi a Roma, ove in breve era divenuta cortigiana famosa acquistandovi il pomposo nomignolo di _Regal meretrice_. Ma in quell’anno del giubileo il Signore le aveva tócco il cuore sí che aveva fatto dono di dieci mila scudi al monastero in cui s’era rinchiusa. — “Mi son riservati — ella finiva — cento scudi romani, ch’è il salario ricevuto dalla sua signora sorella, e della metà ne farò dir messe per il riposo dell’anima di questa e dell’altra preghiere al Santo Spirito per la sua conversione, oltre alle mie preghiere particolari„. Il Leti rispose: “.... Di lei non ne avevo inteso parlar minima cosa dalla morte in poi della mia sorella, né mai avrei pensato che Bellottola di Milano fosse fatta la Regal meretrice di Roma, della quale ne avevo inteso far conti tali, che aveano dato la volontà all’autore del _Puttanismo di Roma_ d’infilzarvela dentro con gratiose maniere vantaggiose a tal sua professione.... Le dirò intanto che per una nuova convertita il mentir cosí sfacciatamente mi dà da pensare. Mi scrive d’aver abbandonato il peccato, in luogo di dire ch’è stata dal peccato abbandonata. La mia sorella è morta sono appunto trent’anni: quattro di servizio, son trentaquattro, e ventuno che aveva quando entrò a servirla, son cinquantacinque; et intanto si loda d’aver abbandonato il peccato? Anzi doveva scrivermi che per dispetto al peccato, che l’aveva abbandonata erano quindici anni (giacché in Italia, passati li quarant’anni, si mandan le donne al diavolo), aveva presa la risoluzione di far la penitente.... Non so comprendere questo suo zelo di voler salvar la mia anima per gli obblighi che aveva alla mia sorella..... Perché non conservar meco quest’obbligo.... co’l farmi suo erede?; che senza scrupolo avrei ricevuta l’eredità„. E consigliandola d’impiegare i cento scudi romani, invece che in messe e in preghiere, in elemosine, conchiudeva: “Si ricordi talvolta che non è il giubileo che l’ha convertita, ma la sua età„.⁵³ V. Ma per tornare ad Alessandro settimo, egli morí davvero poco dopo l’imaginato conclave di quelle tali donnine, e della sua morte e del suo viaggio all’altro mondo Gregorio Leti seppe e narrò assai cose piacevoli. La qual satira — _Il sindacato di Alessandro VII con il suo viaggio nell’altro mondo_,⁵⁴ — è di quelle la cui essenza, tutta di pasquinate, trova disposizione in una tela semplice ma ingegnosa di fatti. Cosí mentre il morto pontefice è spedito dritto dritto in Purgatorio e là giú tenta invano di procedere come in vita, e solleva gran discorsi di sé, quassú in Roma passa dinanzi ai Conservatori e a Pasquino e Marforio, l’uno fiscale e l’altro scriba nel congresso, la moltitudine di coloro che hanno da significare i torti ricevuti da lui: monsignori e cardinali tristi, de’ quali non è stata appagata abbastanza l’avidità e l’ambizione; preti miserabili, vittime dell’ingordigia dei maggiori; fidati impudenti rivelatori delle proprie per rivelare le colpe altrui; gentiluomini stranieri pieni di nausea per la politica e la corruzione di Roma: una fila lunga di persone, a cui non manca espressione; tra cui è anzi piú d’una macchietta a tratti rapidi e vivaci. I conservatori ascoltano in silenzio il racconto delle piccole colpe o dei delitti nefandi; ma, per contro, discorrono assai Pasquino e Marforio, il primo strapazzando spesso i querelanti, e ammonendoli il secondo; e dando l’uno notizie e argomento di dispute all’altro: giacché lo scriba e il fiscale, quantunque siano i due amici che tutti sanno, non si trovano sempre d’accordo per cagione del loro carattere molto diverso. Pasquino è sagace e senza paura e irascibile; Marforio, meno pronto di testa, meno sicuro d’animo, difficile ad infiammarsi: l’uno, quando è il caso e può, cerca di salvar capre e cavoli e s’imbroglia; e l’altro si stizzisce. “Tu sei nato per farmi crepare, Marforio, con queste tue procediture — dice Pasquino —, le quali servono a farti stimare un poco meno cattivo di me; ed in fatti tutti parlano di Pasquino: Pasquino qua e Pasquino là: le punture, le ferite, le maldicenze ed ogni sorta di mormoro s’applica a Pasquino; in somma non si parla, quando si tratta di mala vita, che di Pasquino; a tal segno che hanno dato titolo ad ogni sorta di satira, di _pasquinate_; ma di te non si parla che poco o niente, e sinora non s’è inteso mai dire _marforiata_. E perché questo? Perché io parlo con libertà; perché quello che ho nella bocca ho nel cuore, e nel cuore non resta che quello che va fuori dalla bocca; perché sono amico degli amici e nemico dei nemici; perché non faccio distinzione di qualità di persona, menando al pari i grandi con i piccoli....; ma tu, al contrario, vai sempre risarcendo quello che rompi e cerchi di rompere quello che mostri di risarcire..... Se io sapessi fingere come fai tu, non averei la testa rotta....„ — Risponde Marforio ch’egli nacque non ai tempi in cui nacque lui, ma quando i piú “nascevano con due faccie, l’una ricevuta dalla natura nel luogo ordinario e l’altra dietro le spalle: non esser meraviglia se ritiene della natura propria a molti di quelli che è andato praticando.„ Non meno piacevole e ugualmente intessuta di pasquinate è l’_Ambasciata di Romolo ai Romani_⁵⁵. Gli annali sacri e profani di Roma, “già compiuti da parecchie autorità per ordine di Romolo„, erano letti ad alta voce in cospetto di tutti i numi, i quali con diversa commozione ascoltavano i grandi fatti e le grandi sventure dell’alma città, e la gloria a cui l’avevano innalzata con meravigliosa alleanza la fortuna e la virtú, e le ruine in cui l’avevano precipitata il papato, i barbari e Carlo quinto, allorché Mercurio si presentò tutt’afflitto alla suprema raunanza e, mancandogli la voce, spiegò la causa del suo dolore con fogli che dié a leggere a Romolo stesso. Contenevano tre poesie di rammarico in morte di Clemente nono; e dalla lettura loro Romolo ricevette tanto cordoglio che si mise a piangere, e cosí, con il capo tra le mani, a pensare i mezzi di salvezza per la sua città, su la quale minacciava di nuovo la tirannia del nipotismo. Andar egli a riporvi le cose nello stato d’una volta in un tempo in cui “gli ecclesiastici non potevano soffrire altro dominio che il proprio„, era certo impresa troppo arrischiata: meglio spedire un ambasciatore che sotto apparenza di consolare il popolo romano per la morte del buon pontefice, ricercasse s’ei fosse disposto a vivere nel regime del paganesimo; e giacché agli ambasciatori conveniva fasto e nobiltà, gli parve ancor meglio inviarvi Remo suo fratello. E Remo con una lettera “credenziale„ per i Romani e con gli ammonimenti del fratello, e a capo d’una scelta comitiva, si mise subito in viaggio. Aveva di piú, per “non rincontrare in quei viluppi in che sogliono cadere bene spesso quei ministri che vanno a negoziare senza conoscere l’umore delle nazioni„, una memoria intorno “i costumi de’ principali popoli d’Europa„. Nella quale tra le altre cose, era detto che: in statura il Tedesco è grande; l’Inglese di bella presenza; il Francese di bel garbo; l’Italiano mediocre; lo Spagnuolo spaventevole.... In amore: il Tedesco non sa l’arte d’amare; l’Inglese ama bene in pochi luoghi; il Francese ama per tutto; l’Italiano sa come bisogna amare; lo Spagnuolo ama bene. In scienza; il Tedesco sa come un pedante; l’Inglese come un filosofo; il Francese di tutto sa un poco; l’Italiano sa come un dottore; lo Spagnuolo è profondo.... In ingiurie e benefici: il Tedesco non fa né bene né male; l’Inglese fa bene e male; il Francese scorda il bene e il male che fa e che riceve; l’Italiano serve con affetto e si vendica con ira; lo Spagnuolo ricompensa il bene e il male. In pasti: il Tedesco è un briaco; l’Inglese è un ghiotto; il Francese delicato; l’Italiano sobrio; lo Spagnuolo scarso.... In costumi: Il Tedesco è rustico; l’Inglese crudele; il Francese cortese; l’Italiano civile; lo Spagnuolo disprezzante.... In magnificenza: il Tedesco è magnifico in privato; l’Inglese in mare; il Francese nella corte; l’Italiano nella chiesa; lo Spagnuolo nell’armi. In bellezza: il Tedesco è come una statua; l’Inglese come un angelo; il Francese come un uomo; l’Italiano come può; lo Spagnuolo come un diavolo.... In presenza: il Tedesco di rado ha bel garbo; l’Inglese ha la vista né di savio né di matto; il Francese un garbo stordito, et è in effetto; l’Italiano ha la vista di savio et è matto; lo Spagnuolo ha la vista di matto et è savio.... In matrimonio: il Tedesco è padrone; l’Inglese servidore; il Francese buon compagno; l’Italiano carceriere; lo Spagnuolo tiranno. Le donne: in Germania fanno risparmiare, ma sono fredde; in Inghilterra sono regine e libertine; in Francia dame e lascive; in Italia prigioniere e cattive; in Spagna schiave et amorose.... In viaggio: il Tedesco viaggia per costume; l’Inglese per capriccio; il Francese per osservare i fatti d’altri; l’Italiano per imparare; lo Spagnuolo per necessità. E Remo, da buon italiano, s’istruiva assai viaggiando di cielo in terra, tanta gente incontrava che gli dava a leggere satire e tanti l’accompagnavano per discorrergli delle tristi condizioni di Roma. Meno male che giunto nella eterna città fu consolato dall’elezione d’un ottimo cardinale a pontefice: l’Altieri, che prese il nome di Clemente primo. VI. Quest’anima satirica di Gregorio Leti, anzi che infiacchirsi o addolcirsi, nella vecchiaia resistette e rincrudí, e oramai settantenne egli diede fuori quella _Critica delle lotterie_, per cui un ministro di Luigi XIV fu indotto a dire: “So bene perché il re di Francia ha fatto la guerra a tanti suoi particolari nemici, ma non so trovar la ragione che abbia possuto muovere il sig. Leti a farla a tutto il genere umano.„⁵⁶ Infatti, giú botte da orbo a príncipi, ad ambasciatori, a generali; a tribunali, a senati, accademie, università, eserciti, nazioni; a nobili e a plebei; a ricchi e a poveri; a letterati e ad idioti; a religiosi di ogni chiesa e a increduli; a stampatori, a donne, a sé stesso. E in tempi che per reo costume l’adulazione e la viltà ruinavano la società tutta, queste satire acerbe piacquero come opere sincere e forti; né fastidiscono oggi chi le riguardi; non foss’altro perché noi, gente temperata e morale, ripugnamo sí dalla maldicenza infamante e dagli scandali de’ nostri giorni, ma ci volgiamo poi con certo gusto alla ricerca di vecchi scandali e infamie vecchie; vecchie, siano pure, di due secoli. PUNIZIONE⁵⁷ Ammirata dell’opera fine e vivace delle miniature la signora aveva molte esclamazioni e troppe interrogazioni per ciascuna pergamena che le ponevo sott’occhio: — Che significa quest’allegoria? — Che festa solenne sarà questa a cui concorre sí lunga fila di dame e gentiluomini? — Chi è questa regina che scesa dalla carrozza a sei cavalli s’inginocchia dinanzi a un cardinale? — Che bel teatro, e quanta gente, e curiosi i comici in scena! Forse è un teatro di Bologna? — Sono scienziati o diplomatici costoro in grave radunanza?; — ond’io piú d’una volta mi confusi a rispondere o non risposi, ed ella levò a me gli occhi, ahi!, sorridenti, come le labbra, di sottile sarcasmo. Però quando fummo a una rappresentazione dello Studio ed ella accennandomi gli scolari — Come bellini! E come dovevano vivere lieti! — parve desiderare qualche notizia intorno ai loro costumi, e pure non sperarla da me, sentii giunta finalmente l’occasione a punirla un po’ della curiosità sua e piú della sua malignità, e cominciai: — Vivevano lieti, ed è piú facile trovar ricordi dei loro sollazzi e delle loro monellerie che dei loro studi. Cosí, se ai giovani capaci d’ogni gentile adoperare anche al principio del seicento veniva in premio l’amore, anzi tutto è da credere che le donne si disponessero a compiangerli allorché traevano la dolce pienezza dei suoni dal piú leggiadro degli istrumenti: il liuto. Sonavano pure il clavicembalo e la viola e cantavano a libro commovendo con diverse arie diversi affetti: l’arie lombarde accendevano l’animo all’ardire, le napolitane invece lo intenerivano, le francesi l’inacerbivano con veemenza, e le spagnole al contrario lo rendevano mansueto; l’arie toscane temperavano in cuore gli affetti. Ma giacché le donne furono sempre crudeli a pungere chi manchi di prontezza e sagacia nei discorsi, gli scolari del secolo decimosettimo cercavano con assai cura i motti arguti e le parole soavi, le quali avevano piú agio a profondere nei tardi giri e nei riposi frequenti della _pavana_. Per questo la pavana era sempre uno dei balli preferiti; ma a porre in mostra la grazia e l’agilità della persona tornavan meglio le _gagliarde_ e ai giovani che, come si diceva allora, facevano professione di cappa e spada, conveniva esperienza di molti altri balletti, tra cui alcuni un po’ licenziosi. Tale la _nizzarda_, per cui i ballerini movevano in fretta tre passi abbracciando la donna in guisa che pareva la baciassero; ed io, signora.... — Non c’era educazione in quei tempi! — Veramente in conversazione riusciva non di rado piacevole certa grossolanità di atti e di parole, e, per esempio, una dama poteva punire con “una solenne pianellata„ l’innamorato troppo audace in richiedere, e quegli rispondere allegro: — “Buon destriero non teme calcio di cavalla„ —, ma poi la sottigliezza dei precetti a distinguere e rispettare i vari gradi delle persone era tanta che, stia certa, darebbe gran pena a noi oggidí. Il tormento peggiore era forse a girare in compagnia, perché passeggiando uno con persona degna di deferenza doveva sempre guardar di lasciarla alla parte piú onorevole, la quale cambiava nei luoghi diversi; e se in un giardino poteva essere determinata dalla vicinanza della porta d’ingresso, sotto un portico era invece dal lato del muro, e in una sala dalla disposizione degli usci e delle finestre. Per strada, in Lombardia camminava a piú onore colui che stava rasente il muro, dove nelle città di Toscana e a Venezia sempre colui che si teneva alla destra. E quando tre andavano insieme, in mezzo stava la persona di maggior grado, ma se i tre si sentivano uguali, ognuno, secondo l’usanza spagnola, prendeva il mezzo di tratto in tratto e di tratto in tratto passava alle parti e l’orgoglio di tutti era salvo. Bensí a spasso con un principe o con un gran personaggio non si penava, perché, rimanesse egli a destra o a sinistra, lo distinguevano tutti egualmente. A cavallo, in due o piú, d’estate riceveva onore chi precedeva; d’inverno, chi seguiva gli altri: in carrozza, il padrone secondava i gradi di coloro che l’accompagnavano con l’ordine dei posti; in camera, dinanzi al fuoco, faceva sedere il visitatore nel sito mediano; fuori o dentro la porta di casa.... La storia è lunga, lunghissima poi per gl’intrecci di regole e di eccezioni che il barocco galateo stabiliva riguardo agli incontri per via, i quali potevano essere tra maggiori, inferiori, uguali; in istrada “propria„ o “altrui„; tra persone a piedi e persone a cavallo; tra carrozze recanti signori e carrozze vuote. Bisognavan riguardi non pochi anche ai conviti, in cui sarebbe stata offesa grande alla gravità e all’assennatezza dei commensali offrir loro ravanelli, cervella e sale; e pe ’l sale era anzi un proverbio: “Né moglie, né acqua, né sale a chi non te ne chiede non gliene dare„, quasi che essendo male educati o ignorando l’adagio si potesse offrire la moglie agli amici. Ma oggidí, signora.... — Non esca di carreggiata e parli un po’ piú degli scolari. — _Contra pupillos omnia jura clamant_; e alla “spupillazione„ — ciò era “la ricognizione d’un paio di guanti o d’una dozzina di stringhe di seta„ che i nuovi studenti pagavano a quelli della nazione o città ove andavano a studio, — conveniva acconsentire per amore o per forza: ai neghittosi erano rubati i ferraioli e svaligiate le camere senza misericordia. Uccellavano gl’incauti “pupillotti„ anche i bidelli, i quali avendo una ricompensa da ogni scolaro che si laureasse, conducevano al loro dottore piú discepoli che potevano. Visitare i lettori era dovere; piaceva gridar viva ad essi nelle scuole e fin per le strade. Ma piaceva anche a non pochi ridere, susurrare, sbadigliare, zuffolare, discorrere forte, stropicciare i piedi durante la lezione; onde i maestri erano costretti piú d’una volta a scendere di cattedra: si vendicavano pungendo con motti i disturbatori. Per altro a quei tempi infelici non tutti i lettori erano uomini di profonda dottrina e molti si disprezzavano e mordevano a vicenda. Cosí ad uno che disse a un suo emulo: — “V’intendete di fagioli, non di leggi —„ l’avversario rispose pronto: — “Sí certo che m’intendo di fagioli, poiché non a pena vi vidi, che per tale vi conobbi.„ Ma se gli scolari studiavano meno d’adesso, non giocavano meno. I giochi del secolo decimosettimo erano molteplici e leciti e illeciti: tra questi, quello dei dadi; tra quelli, il lotto, la _farinazio_, il _giretto_ e la _morra_. Gli scacchi e la dama dilettavano come giochi “d’ingegno„; d’“ingegno e fortuna„ lo _sbaraglino_, la _primiera_ e gli altri di carte, per i quali giovavano certe norme fissate in proverbi come: “Sette e fante dalli a tutte quante„, e “ambasso fatti avanti un passo„, e “non si può far assi senza risicare„; d’“ingegno, fortuna e agilità„, la palla, il pallone e il maglio; solo d’agilità, ma piú convenienti “a soldati che a scolari„, la corsa ed il salto. Se non che agli scolari del seicento piacevano altri giochi, e non badando che “si trovano molti fiaschi rotti con le vesti nove„ — il detto è d’allora — pericolavano a smarrire la “grazia dell’aspetto„ e a ingiallare: ma ai dí nostri, o signora.... — Su quanti libri avrà sudato vossignoria per apprendere tutte queste belle cose!; — e stanca rifinita allontanava da sé le pergamene maledicendole tacitamente. Io volli compiere con la punizione la lezione: — Al signor Annibale Roero, nel 1604 non per anche laureato dottore e tuttavia occupato, com’egli scriveva, nel “viluppo delle legali materie„, parve bene rivolgere la sua esperienza e dottrina di scolaro all’università di Pavia in profitto di quelli che si disponessero allo studio del giure, e imaginando sé stesso a ricevere consigli e istruzione dal signor Saglijno Nemours, dalla signora Caterina Roero Nemours e dal conte Galeazzo Roero, per via di quattro dialoghi diede l’“idea del perfetto scolare„. E poiché non solo raccolse le norme seguendo le quali i giovani avvantaggiassero di piú nella scienza, ma stese ancora le regole a procedere saviamente e gentilmente, nel libro dello _Scolare_, tra le nobili sentenze di filosofi e di poeti e gli umili proverbi, tra gli aneddoti antichi e nuovi e i racconti di nuove burle, tra i motti ridevoli e le risposte avvedute, restano non poche notizie de’ costumi ch’erano propri alla miglior società nel principiare del secolo decimosettimo. Signora, vuol leggere il libro curioso? — Grazie: preferisco Daudet. MOLTO RUMORE PER NULLA I. Questa, a linee brevi d’umile prosa, la figurina di un giovane che a mezzo il secolo decimosettimo derivasse dalle mode francesi la virtú di piacere molto alle donne e piú a sé medesimo. Di sotto il cappellaccio bigio, povero di falde e ricco di nastri e fiocchi a vari colori, l’onda dei capelli, naturali o finti, diffusa su ’l largo collare; diffusa su lo stomaco e sfuggente dall’apertura del farsetto di “gialdiccio„, la camicia sottile e candida; i calzoncini strettissimi, verdi, a liste di passamani, trattenuti da lucide stringhe sotto il ginocchio; e quindi le calze rosse o bianche (bianche ne’ partigiani dei Francesi e rosse degli Spagnoli) a seconda dell’opinione politica. Ma al diavolo la politica!; e per seguire in tutto la moda di Francia, meglio che le scarpette coperte in punta da grandi rose di seta e d’oro, due stivalacci coi calzari a rovescioni su ’l collo del piede. E come belle le mani senza guanti, la sinistra poggiata all’impugnatura della breve spada e la destra, con un grosso anello di giavazzo nero nell’indice e un anellino d’argento o di rame nell’estremità del mignolo, intesa talvolta ad appuntare i baffi rivolti in su a punti interrogativi! Le donne rispondevano con sorrisi, ma secondo una canzonetta, forse maligna, pretendevano troppo: Con le donne d’oggidí Ci vuol altro, per mia fé Che portar raso o tabí! Stracciato e nudo Se ’n vada il drudo, Ché amor vero, allor sarà Se per vestir altrui si spoglierà!⁵⁸ Tuttavia i donnaioli non andavan nudi per strada, anzi, potendo, vestivano in conformità delle mode, che allora “variavano come la stagione„⁵⁹. Però se è difficile seguire le vicissitudini delle foggie negli abiti degli uomini, i quali, per esempio, a distanza di pochi anni sostituirono ai calzoni stretti “bragoni scialacquati„, a mala pena si può cogliere la volubilità della moda femminile ne’ suoi momenti piú singolari; e se è noto che a metà del secolo il guardinfante, ricoverto di lunghe gonne e sottogonne, era in uso comune ed utile a nascondere gravidanze legittime ed illegittime e piú d’una volta amatori furtivi, e in uso comune erano i corsetti a “basche„ con le maniche a sboffi e le ampie gollette di pizzo, non è poi facile rendere idea del come mutassero e rimutassero le forme secondarie e le cose minori d’una _toilette_ compiuta. Anche accadeva troppo spesso che qualche dama vaga di novità apparisse vestita e acconciata in maniera diversa dalle altre e traesse tosto molte altre ad imitarla. Cosí fece quell’una vista e ritratta da don Agostino Lampugnani, la quale portava in testa un cappello di feltro con la falda tenuta a rovescio da un fermaglio di gioie; alla persona, una casacca alla francese di seta colore incarnatino, intessuta d’oro con maniche corte e con fiocchi di camicia bianchissima fuori dei gomiti; una gonna all’inglese d’“ormesino cangiante„, succinta tanto da lasciar vedere le gambe coperte da calze di seta color porpora; nei piedi, scarpette di raso con un dito di tacco e con due gran rose pur esse di color porpora; nelle mani, guanti logori e stracciati per porre in vista numerosi e preziosi anelli; al collo, un monile di granati; a un solo orecchio, “un pendente d’odorata mistura nera„; e a sinistra del petto un pugnale e a destra un piccolo archibugio a ruota. Dio ne scampi dal rinnovamento di moda sí fatta! E neppure risorga mai piú l’usanza che in certo periodo del seicento costrinse le signore a farsi salassare per derivarne pallore e magrezza e a mangiare una terra detta _bolarmico_ per cui l’avorio dei denti rimanesse “incastonato d’ebano„: aberrazione di gusto, che ebbe forse a causa e scusa il rovello delle gentildonne al vedersi imitate ed emulate dalle umili cittadine nella profusione della biacca e del minio su ’l viso e su ’l seno. Odiose borghesi, le quali smaniavano di copiare le dame in tutto! Almeno al tempo in cui usavano i manti era come stabilito per legge che le gentildonne li portassero di seta e le “cittadine e mercadantesse di criniletto; e guai a quella di queste che si fosse arrischiata di portarlo di seta, perché era certa che le sarebbe stato strappato d’attorno„, e talvolta per mano delle dame medesime! “Usanza — aggiunge il Ghiselli —⁶⁰ che sarebbe da desiderarsi che fosse stata mantenuta, ché non si vedrebbe al presente quella confusione che produce quel trattamento, ch’accomunato a tutti piú non fa comparire quella bella distinzione fra le persone di diversa condizione; contro l’uso d’oggidí, nel quale piú non si conosce dalla suntuosità del vestire una dama da una moglie di uno speziale o di qualch’altro uomo di piú bassa condizione.„ II. Scrittori che deridessero e sferzassero le mode barocche e le costumanze corrompitrici abbondarono pure nel secolo decimosettimo, ma per arte e per ironia acuta e fremebonda, che fa rammentare il Parini⁶¹, Gabriello Chiabrera superò tutti in due de’ suoi sermoni e piú mirabilmente in quello all’amico Jacopo Gaddi: Gaddi, ch’oggi sull’Istro e per li campi Della fredda Lamagna ami battaglie La gioventude, e sia disposta all’armi, Negar non oso, e negherò via meno Che dentro i dicchi della bassa Olanda Si rimirino popoli feroci.... Dico che nella Fiandra e nella Francia, E che dovunque il sol mostra i capegli. Nascono destre da vibrare un’asta. Da stringere una spada, ed avvi gente Da piantar palme sulla lor Tarpea: Tutto vi posso dir; bella fanciulla Appiattar non si deve, e similmente Però cosí parlai: ma d’altra parte Forte contrasterò che né per Fiandra, Né per dovunque il sol mostra i capegli, Gente leggiadra mirerai, che agguagli La leggiadria dell’italica gente. Chi muoverassi a contraddirmi? E dove Calzar potrassi una gentil scarpetta? Un calcagnetto sí polito? Arroge I bei fiocchi del nastro, onde s’allaccia. Che di Mercurio sembrano i talari. Io taccio il feltro de’ cappelli tinto Oltre misura a negro; e taccio i fregi Sul giubbon di ricchissimi vermigli. Chi potrà dir de’ collarini bianchi Piú che neve di monte? Ovvero azzurri Piú che l’azzurro d’ogni ciel sereno? Ed acconci per via che non s’asconde Il gruppo della gola, anzi s’espone Alle dame l’avorio del bel collo? Lungo fòra a narrar come son gai Per trapunto i calzoni, e come ornate Per entro la casacca in varie guise Serpeggiando sen van bottonature. Splendono soppannati i ferrajoli Bizzarramente, e sulla coscia manca Tutto d’argento arabescati; e d’oro Ridono gli elsi della bella spada. Or prendasi a pensar quale è a mirarsi Fra sí fatti ricami, in tale pompa. Una bionda increspata zazzeretta Per diligente man di buon barbiere Con suoi fuochi e suoi ferri; e per qual modo Vi sfavilli la guancia sí vermiglia, Che può vermiglia ancor parer per arte; E chi sa? forse, forse.... O glorïosa, E non men fortunata Italia mia, Di quella Italia che domava il mondo Quando fremean le legïon romane!... Nel sermone a Francesco Gavotti il Chiabrera feriva in vece le donne, dubitoso che per le vanità delle mode e per le pompe e i sollazzi, la loro onestà potesse restar “salda in piede„: .... Io rimiro le donne oggi far mostra Di sua persona avvolte in gonne tali, Che stancano le man di cento sarti. Men ricamato stassi infra le nubi L’arco baleno: io tacerò dell’oro. Oro il giubbone, òr le faldiglie, ed oro Sparso di belle gemme i crini attorti. Negletta fra’ suoi veli appar l’Aurora Sorta dall’Oceáno. Io già non nego, Che assai sovente la beltà del viso Fa tradimento alla mirabil pompa. Or sí fatta donzella è non contenta Di sua statura, ma levata in alto Su tre palmi di zoccoli gioisce Di torreggiare, e per non dare un crollo, E non gire a baciar la madre antica, Se ne va da man destra e da man manca Appuntellata su due servi, ed alza Il piede, andando, come se ’l traesse Fuor d’una fossa; onde movendo il passo È costretta a contorcer la persona, E a ben dimenar tutto il codazzo. O Democrito antico, ove dimori? Ove sei gito? A sí leggiadre usanze Giungi carrozze da città, carrozze Per la campagna, seggiole, lettiche, Staffieri, paggi. Il padre di famiglia I golfi passerà per mezzo il verno Su frale nave mercatando, ovvero Con l’armi in dosso seguirà l’insegne Fra mille rischi, e ne’ palazzi alteri Serva farà sua libertate a’ cenni D’aspro signor, per adunar moneta; E poi disperderalla in compir voglie E soddisfar vaghezze della donna? La donna darà legge? avrà la briglia D’ogni governo in mano?.... Ci voleva proprio il coraggio d’Arcangela Tarabotti per sostenere che le donne del tempo di lei e del Chiabrera erano in tutto schiave agli uomini! III. Povera Tarabotti! A undici anni per volontà del padre suo, duro uomo di mare, era stata costretta a vestir l’abito di monaca nel convento di Sant’Anna in Venezia; a cambiare il bel nome di Elena in quello brutto d’Arcangela; a porgere un vóto quando in lei “diversa dalla lingua e dagli atti esteriori, altro intendeva la mente„. Cosí “fino alla consecrazione„ era rimasta “monaca di nome, ma non d’abito e di costumi; quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi„⁶²: consacrata, nella condanna della sua calda giovinezza; nello strappo pur dai sogni di quelle gioie che avrebbe voluto gustare, quante gliene suggerivano la fantasia ed i sensi; nella racchiusa e muta disperazione d’ogni bene, d’ogni conforto avvenire, aveva imparato a scrivere, la monacella, e aveva studiato assai per richiamarsi un giorno con le sue opere alla giustizia e alla pietà del mondo. E riuscita che fu a comporre _La semplicità ingannata_, _La tirannia paterna_ e _L’inferno monacale_, le parve d’aver tratta per l’infelicità sua e per quella di mille altre sciagurate sue eguali, un’aspra vendetta della crudeltà dei genitori, di una barbara costumanza, di una legge fatta contro la natura per l’amore di Dio. Ai due ultimi libri non fu data licenza di stampa, quantunque s’adoprasse per essa Vittoria Medici della Rovere granduchessa di Toscana: il primo usci a Leida solo nel 1654 e fu proibito da papa Innocenzo decimo perché tra l’una citazione e l’altra di storia sacra, tra l’uno e l’altro ragionamento sconclusionato, erano scatti d’odio contro i parenti che sacrificavano le figliuole alla clausura. — “Com’è possibile, o ingannatori, che chiudiate in seno un cuore cosí crudele, che soffra di tormentar il corpo delle vostre figliuole, che pur son vostre viscere, con perdita forse della lor anima....; e che con la loro procuriate di precipitar anco le vostre medesime negli abissi dell’inferno, come rei di colpa mortalissima, per aver violentata la volontà di quelle, alle quali Iddio l’ha conceduta libera?.... Voi, tiranni d’averno, aborti di natura, cristiani di nome e diavoli d’operazioni...., pretendete d’esser scrutatori di quei cuori che non si vedono se non da gli occhi di Dio, e disponete con pazza pretensione sino dell’arbitrio di quelle creature che pur anche stanno chiuse nell’alvo materno, senza aspettare ch’esse vi dichiarino a qual stato le inclini il loro genio, senza pensare quale iniquità sia lo sforzare l’altrui istinto„. Questo e gli altri due libri passavano manoscritti di mano in mano, recando all’autrice lodi di scrittori famosi, che le si professavano divoti, e biasimi di frati maligni, che l’accusavano di farsi bella d’opere d’altri. Ma nel 1633 il cardinal Federico Cornaro patriarca di Venezia ebbe voglia di convertire al bene e alla rassegnazione la suora ventottenne divenuta oramai una ribelle pericolosa, e co’ suoi consigli e rimproveri raggiunse l’intento: d’allora in poi Arcangela intese a scrivere cose buone: _Il paradiso monacale_; _La luce monacale_; _La via lastricata per andare al Cielo_; _Le contemplazioni dell’anima amante_; _Il purgatorio delle mal maritate_⁶³. E si diede a compiere buone opere, tra cui piú la dilettava quella di maritar le novizze. Fra le sue lettere sono parecchie del tema di questa: “La novizza assolutamente non vuole il....; ella dice che quarant’anni son troppi per una giovanetta.... Per ella (!) è piú proporzionato un giovinetto bello, vivace et affaccendato, che un uomo sodo e mezzo buffalo, qual’è il vedovo propostole. V. S. Illustrissima sa il suo bisogno; provveda di cosa a proposito, se vuole la mancia....„ Anche doveva sdegnarsi se, come io credo le accadesse, qualcuno s’innamorava di lei: certo metteva in burletta un tal B... (fosse il frate Brusoni, che era e dicevano suo amico e che — vedremo pur questo — dopo averle fatti grandi servigi s’inimicò con lei?), un tal B., il quale forse temperando l’amore con lo scherzo, o piú tosto, ciò che non era strano in quei tempi, adombrando l’amore con versi oscuri e bizzarri, le inviava de’ cosí fatti sonetti: Lucido mio piropo! E quando mai Potrò stemprarti in olocausto il core? Tu rintuzzi del sol fulgidi i rai, Oroscopo fatal del pronto ardore. Io t’offersi la fede e già passai Per smeraldi di fuoco al ciel d’Amore, Sollecito amatore il pié portai Sotto i vestigi tuoi ricco d’onore. Circonciso mio lume, ahi ch’io t’adoro Funerato fra bende oscure e nere, E mentr’io t’amo piú languisco e moro! Vessillario son io di tue bandiere; La fiamme mie velate alzo al martoro, Solennizzando il cor vittorie intiere⁶⁴. Ma benché pentita e ammalata la Tarabotti persistette ad amare, se non gli uomini, il mondo, e piú la sua fama di scrittrice. E quando a quarantasette anni si sentí vicina a morire scrisse alla amica Betta Polani: “Perché il peregrinaggio della mia vita è giunto alli ultimi confini di questo mondo, a voi, che siete stata assoluta padrona della parte piú cara di me stessa, mando li miei scritti, che sono le piú care cose ch’io abbia e che mi rincresca di lasciare. Direi che fossero bruciati, ma qua dentro non ho di chi fidarmi. _Le contemplazioni dell’anima amante_, _La via lastricata del Cielo_, e _La luce monacale_ sieno stampate, se cosí piace a voi; il resto sia gettato nel mare dell’oblio: ve ne prego in visceribus Christi.... Amatemi se ben morta, e addio per sempre„⁶⁵. Oh s’ella avesse potuto trar seco nella tomba tutte le copie di quell’_Antisatira in risposta al_ Lusso Donnesco _del signor Francesco Buoninsegni_, che per poco non le aveva sciupata ancora vivente quella celebrità a cui, approssimandola la morte, desiderava lasciare il suo nome per l’età sua e per l’avvenire! Udite pettegolezzo, il quale, tanto era vano il seicento, parve rumore di gravi casi. IV. Nel 1638, alla stagione che il vin nuovo ribollisce nelle botti, venne voglia ai signor Francesco Buoninsegni, detto da un contemporaneo l’“Apollo di Siena„, di scrivere una satira “menippea„ contro il “lusso donnesco„, la quale dovea, credo, servirgli a un discorso nell’Accademia degli Intronati⁶⁶. Egli cominciando con l’avvertenza dell’Ariosto: Donne, e voi che le donne avete in pregio. Per Dio, non date a questa istoria orecchia, giocherellava a motti insulsi e con uno stile saltellante e barcollante, per sciocca simulazione d’ebbrezza, intorno la vanità delle donne e delle loro mode al tempo suo, e gli sembrava di pungere piú vivamente con questi che furon tenuti per sali finissimi. — Si sa che mezzo di vittoria a quelle che “s’impiegano nelle onorate ambascerie d’amore„ son le promesse di gemme, oro e vesti, perché le donne cedono tutto al lusso e al vestire, che testimonia “la pena dell’antico peccato„. Ed è giusto indossino abiti di seta, la quale è “vomito d’un verme„, se esse sono “vermi i quali rodono il cuore degli amanti„, e se possono dirsi un “vomito delicato della natura„. Per le pianelle tutte dorate e sí alte che con la coda coprono una mezza donna di legno, potrebbero anche imaginarsi trasformate in alberi da un novello Ovidio; ma giacché i loro capelli, che sono posticci, non potrebbero divenir frondi, meglio è chiamarle il rovescio del colosso di Nabuccodonosor: hanno i piedi d’oro e il capo di legno. Anche, perché ai cenci che si legano in capo sormontano “un’attrecciolatura di perle orientali„, e perché le perle e il sale “escono da uno stesso padre„, consentite si affermi ch’esse dove non han sale mettono perle. L’arguzia meriterebbe un castigo al signor Buoninsegni, ma egli né pure ha da temere pianellate dalle donne, le quali “hanno piú vigore nelle gambe per istrascinar le ingenti pianelle che forza per avventarle„; e però segue a burlare l’acconciatura alla moda del capo femminile rammentando un poeta: I corpi delle donne Che corrono alla festa Con cosí ricche gonne, Con tante gioie in testa, Son cappanne di fieno Coperte con pazzissimo lavoro Di tegole, di perle e doccie d’oro. Non basta: un paragone piú sottile, che fece fortuna, è tra le donne e un mazzo di carte. Di queste _il matto da tarocchi_ risponde alla testa di quelle: quelle hanno i _denari_ e li sciupano nelle gioie; le _spade_ piccoline le portano tra i capelli e tengono uno spadino ai fianchi; nascondono i _bastoni_ sotto i ciuffi; attaccano _coppe_ alle borse dei mariti; e cosí via. Né il satirico scrittore smette di saltellare fino a che si ricorda essere inutile discorrere contro le donne, alle quali non bastano ad aprire gli orecchi, non che i consigli ed i frizzi, i lunghi e i gravi pendenti. — Questa “satira menippea„ pervenne alle mani del padre Angelico Aprosio da Ventimiglia, dottissimo uomo ma di testa corta, il quale ne inviò copia al senatore Loredano affinché procurasse le fosse fatta una risposta da pubblicarsi con essa; e Giambattista Torretti, per preghiera del Loredano, al quale una moltitudine di scrittori s’inchinava come a un maestro e a un Mecenate, compose una _Controsatira_ “modestissima„ e tale “che non mosse alcuno a scrivergli contro„⁶⁷. Ma cinque anni dopo ad Arcangela Tarabotti, che nel monastero di Sant’Anna leggendo e scrivendo mitigava i tormenti delle memorie vecchie, dei nuovi desideri e dell’isterismo, fu recato da alcune dame il brutto scherzo del Buoninsegni; ed essa, la monacella che già aveva sostenuto contro un altro scrittore, in pseudonimo Orazio Plata, non essere le donne di natura inferiore agli uomini, divampò d’ira a scorgerle tanto schernite pei loro difetti e pei loro gusti. — “Oh scellerata ed impervertita mente degli uomini, ai quali mancando forse il potersi impiegare in iscrivere fatti egregi et racconti virtuosi, poiché al nostro secolo vi sono pochissimi di loro che operino azione degna di immortalità, quasi tutti si danno ad oltraggiare e sprezzare le nobili operationi donnesche!„.⁶⁸ — E pare di vederla e udirla inveire contro il Buoninsegni nella sua fantasia a cospetto di lei con l’attitudine d’un delinquente. — Ah sí!, le donne veston di seta perché sono vermi? portano perle perché mancano di sale? Vermi gli uomini “che rodono l’onor delle donne e hanno tarlata la loro libertà„; e, quanto alle perle, esse sono “proporzionate al candore e alla purità dell’animo loro„, precisamente come del nero dei loro vestiti, che a voi, signor Buoninsegni, pare un mezzo di seduzione, è ragione “quella mestizia che le tiene oppresse, per esser sottoposte alla tirannia degli uomini e ai loro indegni capricci„. E le pianelle alte sono un’“invenzione lodevole„, giacché per queste le donne “van sempre sollevate dal suolo e tendono al Cielo„; e se han dorate le pianelle, “se l’infima parte è d’oro, che sarà il resto?„ Gli uomini, non le donne, cerchino le loro qualità e le loro cose in un mazzo di carte. Per i _denari_ infatti si disonorano; con le _coppe_ si ubbriacano; e portano _spade_ dorate ai fianchi, gli Orlandi!; e riversano i _bastoni_ su le spalle delle mogli sciagurate. E poi nei _tarocchi_ sono i loro ritratti con le facce da _diavolo, appiccato, bagatelliere, amore_ falso. — Capo di legno alle donne? Teste di legno hanno i mariti, signor Buoninsegni; ma già voi procedete troppo a sofismi. “Ah se alle femmine non fosse diniegata l’applicazione alle scienze bensí si sentirebbero concetti non sofistici e mendicati paradossi!„ Del resto — aggiungeva suor’Arcangela —, “ad ogni ora può provarsi se le donne han piú forza nelle gambe o nelle braccia!„ — Cosí dunque la Tarabotti si sfogò in un’_Antisatira_ oppugnando ogni frizzo dell’“Apollo di Siena„ e mettendo ella in burletta le mode degli uomini, che portavano zazzere comprate a contanti, si profumavano alla francese e per far apparire belle e grosse le gambe si riempivano le calze di bambagia; e l’_Antisatira_ mandò a vedere al cognato Pighetti. Il quale la lesse con l’Aprosio ed entrambi trovandola “ripiena di mille spropositi e di non poche impertinenze„⁶⁹, cercarono di dissuadere l’autrice dallo stamparla. Di che la Tarabotti pativa e s’inquietava con l’Aprosio. “Essendo V. S. parziale del Buoninsegni mi vorrebbe senza lingua per lui, e perciò va dissuadendomi col dar nome di satire e di duelli impropri ad una buona religiosa la verità tanto grata a Dio„; ma quanto alla sua esortazione d’esser “buona religiosa„, “spero di giungere nel coro de’ Serafini, non che d’essere annoverata nel catalogo delle Santissime Vergini, delle cui sacre bende allor che mi cinsi il capo, non solo fui riposta nel lor numero, ma ancora annoverata fra le martiri„.⁷⁰ Insomma, come ella era deliberata a “diriger sempre le sue parole a dire la verità delle malizie degli uomini„, i due censori dovettero accontentarsi che essa stampasse l’_Antisatira_ con qualche mutazione e con qualche complimento, cosí, per indorare la pillola, all’autore della “satira menippea.„. Ma se la Tarabotti era monaca, l’Aprosio era frate, e come tale sentiva imperioso il bisogno di non darsi per vinto; ond’è che rivedendo a mano a mano le bozze le quali la Tarabotti mandava a correggere al Pighetti, gongolando e zitto zitto egli preparava una difesa del Buoninsegni che abbattesse l’oltracotanza della suora. Compose, consapevole il Pighetti, _La maschera scoperta_; ma presto dovette apprendere per essa che se il resistere alle donne è impresa difficile, è tempo perduto prendersela con le monache. _La maschera scoperta_, quando fu sbrigata dal revisore per il Sant’Uffizio, passò a Luigi Quirini, segretario dello studio di Padova; e questi, prima di dar l’ultimo permesso di pubblicazione, la diede a leggere a quella buona lana del frate Girolamo Brusoni, allora in carcere per colpa di apostasia: né il Brusoni si distrasse solo con la lettura del manoscritto, ma ne prese copia, e uscito di prigione pochi dí dopo, corse a cederla, o, se è vero quel che dice l’Aprosio, a venderla alla Tarabotti, “per ritrovar qualche sovvenimento alla sua fame.„⁷¹ Onde la Tarabotti diede in ismanie; e come alcuni dicevano che l’_Antisatira_ — già pubblicata e dedicata alla granduchessa di Toscana — non era scritta da lei, parendo loro troppo ben fatta, ed altri asserivano che doveva proprio esser sua, essendo zeppa di strafalcioni nelle sentenze e nei ricordi classici, addio fama di donna illustre se anche fosse stato concesso all’Aprosio di mandare alle stampe la _Maschera scoperta_! A riparare l’ultimo colpo bisognava dunque il soccorso di quanti potenti le volevano bene, e scriveva al Loredano invocandolo come “protettore benigno e difensor valoroso del senso donnesco„; al granduca di Parma Ferdinando Farnese assicurandolo della tristizia dell’Aprosio, “predicatore delle glorie del vino, confessore de’ bugiardi. Mecenate degli ubbriachi„,⁷² — cioè del Buoninsegni; — scriveva per aiuto a molti altri, e alla fine ottenne quel che desiderava: _La maschera scoperta_ non fu pubblicata. Imaginate voi l’ira dell’Aprosio? Io l’imagino per le lettere che gli inviava la monacella, la quale sembrava corbellarsi di lui e affermava con una piccola bugia ch’ella non s’era adoperata affatto “nella sua patria o fuori„ a ch’egli non potesse stampare scritti contro di lei. — “Io non pretesi altro da Lei che fosse levato il mio nome da quell’opera (_La Maschera_), acciò che la commedia della _Maschera discoverta_ non finisse in tragedia per qualcuno„.⁷³ — Capite? In tragedia! Ma il Pighetti, per riaversi nella stima della cognata, che l’aveva creduto “promotore„ della _Maschera_ e gli aveva scritto: “le ferite che si danno alle spalle sono da traditore e le parole che si dicono in assenza di coloro di cui si parla non possono offendere„, dovette interporsi tra il frate e la monaca, perché quello desistesse dal vendicarsi di questa e dal minacciarla: infatti l’Aprosio s’accontentò d’allargare la materia della _Maschera_, e dandole sembianza d’una censura “non contro le donne, ma le vanità e i vizi in generale„, compose _Lo scudo di Rinaldo, ovvero lo specchio del disinganno_, che vide la luce nel 1646. Veramente nello _Scudo_, opera in cui l’autore biasimava il lusso del suo e di tutti i tempi riferendo brani d’innumerabili scrittori antichi e contemporanei, se non mancavano rimproveri agli uomini perché mettevan la parrucca, lasciavan crescere lunghe le unghie e tormentavano “li mustacchi„, erano piú le frecciate alle donne, le quali coprivan la fronte e scoprivan le poppe, si tingevano i capelli o ne assumevano di posticci, s’imbellettavano, facevano mostra d’orecchini e di zoccoli ridicoli. Tuttavia nella prefazione la Tarabotti riceveva lode di scrittrice famosa, e nel capitolo settimo ella poteva rileggere l’elogio che già le aveva fatto in latino il Pighetti: — “La purissima penna di cui ti servi, un angiolo deve aver tratto per te dalle sue ali„. — Se non che era appena quetato un frate quando un altro si fece addosso ad Arcangela, e fu, chi lo crederebbe?, l’amico suo Girolamo Brusoni. Perché l’assalisse negli _Aborti dell’occasione_ io non so bene; so che una volta la Tarabotti gli chiedeva scusa scrivendogli: — “Può aver peccato in me una bile, che mossa dal male continuato che tengo attorno, cagiona in me una certa rabbietta ch’alle volte mi farebbe precipitare„; — e che un’altra volta si doleva con lui: —.“Quando mi capitarono nelle mani _Li aborti dell’occasione_, allora mi conobbi d’avvantaggio tradita.... S’ella però ha cosí operato per rendermi la pariglia d’un inganno scherzevole dovea star nelli limiti....„ —⁷⁴ Che piú? Avanti di morire l’infelice suora ebbe ancora da difendere le donne proprio dagli scherni di quel cavaliere ch’ella avea chiamato “protettore del sesso donnesco„: il Loredano, il quale per certa accademia compose sei sonetti satirici non tutti blandi e né pure arguti come questo che segue: _S’allude al costume della Spagna di donare il condannato all’ultimo supplicio alla donna pubblica che lo chiede per marito._ Con li occhi chiusi e con le man legate, Assicurato con infami scorte, Veniva un meschinel condotto a morte Perch’avea in chiesa bastonato un frate. Quando mossa una femmina a pietate Gridò: — Fermate, sbirri: il vo’ consorte. — A questo dire s’allargò la corte E poneva il paziente in libertate. Ma il reo con una faccia gioviale Ricusò di tal grazia il benefizio E corse ad incontrar l’ora fatale. Poi disse al boia: — Esercita il tuo ufficio Ché se la forca è un tormentoso male La moglie è in verità maggior supplicio.⁷⁵ Ma il piú acerbo avversario d’Arcangela fu Lodovico Sesti (Lucido Ossiteo), che nel 1656 stampò a Siena una _Censura dell’Antisatira_ dedicandola al granduca Mattia di Toscana. Cotesto “accademico Aristocratico„ tra le altre cose diceva alle donne che non conveniva loro il darsi alle lettere perché “la sella disdice al somaro„; che gli uomini “usavan la parrucca per coprire i difetti cagionati dai loro regali„; che esse ostentavano il seno perché “si mostra la mercanzia che si vuol vendere„, e rifacendo il famoso confronto delle carte da gioco aggiungeva che le donne Sono nate Sol per esser mescolate, E si vede al paragone Chi le mescola piú piú n’è padrone. Ma dotto nell’arte, Sia pur delle carte, Chi primiera con queste unqua non fa? Chi nella borsa sua flusso non ha. E terminava la _Censura_ esortando la Tarabotti “che per l’avvenire misurasse le sue forze, prima di cimentarsi con gl’ingegni di prima classe.„ Vano consiglio! La suora era morta da quattro anni. SICUT ERAT.... Quell’onesto e tranquillo sorriso che di fra i baffetti e il pizzo esce a rischiarare, meglio de’ grossi occhi, una faccia lunga e magra quanto la faccia di Carlo quinto, e quell’umile dito che accenna all’alto del ritratto, ove, entro una raggiera di sole, alcuni V, iniziale di _veritas_, spiegano le parole scritte fuori all’intorno _“et in cælo sicut in terra„_, insistendo nella mia fantasia vi si trasformano a importuni segni di minaccia. Pace, o don Secondo Lancellotti, accademico Insensato, Affidato et Humorista! Io, pur di fuggire ai colpi del vostro scherno e della vostra mano ossuta, parlerò di voi e con voi ai protervi che osano trarre la cattività d’oggidí in paragone alla bontà d’altri tempi. ———— Anche adesso, come nel 1623, quando l’abate don Secondo scriveva, “son le povere donne per avventura piú de gli uomini soggette al mormorio de gli _oggidiani_, quasi che _oggidí_ elle sieno piú che fossero mai vanissime, con tanti sbellettamenti o lisci, e tante sorti di vesti e per istravaganza e per valuta esorbitanti, e di rovina a’ poveri mariti et alle proprie case„; ma non sanno essi gli _oggidiani_ che san Girolamo, sant’Ambrogio, Cipriano, Grisostomo e Gregorio Nazianzeno attestano con acerbe rampogne che pur del loro tempo “non solo le maritate, ma le vergini mille sbelletti et impiastri si gettavano su ’l viso„, adoperando in ispece il purpurisso, la cerussa e lo stibio. E rimproverando alle signore la cura soverchia dei capelli e la smania di averli biondi, non sanno che un re dei Persiani ed Elio Vero s’attaccarono al mento una barba proprio d’oro e che l’usanza di biondeggiarsi la testa al sole, per testimonianza di Tertulliano, era fin delle donne germane e galle. Della rabbia che deriva alle donne per la vista dei capelli bianchi rimane a confondere i brontoloni un aneddoto di Macrobio intorno a Giulia figlia di Augusto, la quale, còlta dal padre mentre si strappava capelli bianchi dinanzi allo specchio e da lui interrogata se desiderasse piú tosto venir prima canuta o calva, rispose che prima canuta. Onde Augusto l’ammoní dicendo: — Perché allora ti rendi calva cosí giovane? — E ai tempi d’Ovidio le romane si facevano recare di Germania le capigliature! — “E che diremo di tant’oro che portano addosso _oggidí_, per collane, manigli, pendenti, orecchini...., sí che molte fiate v’è di quelle non hanno altro al mondo che quello che si vede loro attorno alla persona, et ormai non è differenza fra l’artigiane e le nobilissime delle città?„ Ripeteremo, o meglio, se sapessero il latino dovrebbero ripeter quelli che son sempre in doglianze, quanto in proposito dicevano Plauto, Ovidio, Properzio e Plinio, — Ah ora è spinto tropp’oltre il lusso degli abiti? Ma, e le vesti di porpora, di bisso o d’altro, che movevano i predicozzi dei soliti santi Ambrogio, Girolamo, Giovanni, etc., e di cui lasciò la descrizione Clemente Alessandrino? E quelle delicatissime e sottilissime vesti, ricordate forse con dei brividi da Tertulliano, sotto le quali traluceva la carne del petto e delle spalle? Finiamola dunque con le citazioni e coi lamenti, e com’è vero il proverbio che “bisogna comportare l’amico co’ suoi difetti„, cosí, osserva don Lancellotti, “è necessario, se vogliamo vivere in questo mondo, già che vi siamo stati mandati, comportar le donne con le loro imperfezioni„. ———— — “Che non si fa e commette _oggidí_ per questa benedetta roba? Chi non vede come _oggidí_ è guasto il mondo? Non si può piú trattare _oggidí_ co’ mercanti, artigiani, bottegai.... Non ti dicono mai il vero. Non ti osservano mai quel che promettono. Ti vendono una cosa per l’altra. Tutte le mercanzie sono falsificate....„ Cosí, proprio come nel 1892 e nel 1623, ai bei tempi di Salomone, d’Osea e di Grisostomo, i quali ci tramandarono memoria della loro esperienza intorno ai ladronecci commessi dai mercanti ingannando con la lingua, e con la mano “numerando, misurando e pesando poco giustamente„. E a conforto delle anime semplici che si turbano “quando sentono che fallisce qualche mercante o banchiero, ma fallisce, come si dice, co ’l danaro in mano„, ecco un raccontino del Fulgoso, scrittore cinquecentista: “Avendo inteso Castruccio Castracani, signore di Lucca, che un mercante ricco sotto nome di fallimento s’era ritirato e non compariva piú, e che poco da poi, promessa non so che somma a’ creditori, era tornato al banco o traffico, et aveva cominciato a fabbricar un gran palazzo, lo fece metter in prigione e con un bando chiamati a sé tutti quelli ch’avevano d’avere, comandò che fusse loro soddisfatto e l’avanzo se lo pigliasse il pubblico, e poi fece impiccare il marcante per la gola....„ La qual severità, notava il Fulgoso, quando fosse in uso oggigiorno — se pure non mancasse il numero necessario di carnefici — conterrebbe molti dal rubare, e, noto io, non permetterebbe a piú d’un cassiere di scappare in America a fare il galantuomo. ———— — “Non potrei mai ridire quante volte io mi sia meravigliato in udendo gli uomini giungere al termine di dolersi fino che le stagioni dell’anno non corrono piú _oggidí_ come solevano....; che si fanno molte variazioni di tempi in poco tempo, ora di nebbie, ora di pioggie; quando di venti, quando di nevi; questa mattina ne travaglia il freddo, questa sera affanneranne il caldo; oggi il sereno rallegra, dimani rattrista il torbido....„ Nei diboscamenti trovan la prima causa di tali vicissitudini le gravi e culte persone alla fine del secolo decimonono, ma al principio del secolo decimosettimo la trovavano in vece.... nella riforma che avea fatto del calendario papa Gregorio tredicesimo! “Pochi giorni appunto sono che una persona di sessant’anni affermava ricordarsi benissimo che bisognava già sul principio di maggio alleggerirsi di vesti e che _oggidí_, o da quel tempo che quel papa mutò l’anno, chi ben volesse, non può per lo freddo che talvolta segue fino al giugno....„ Ma a toglier d’inganno _oggidiani_ simili a costui, don Secondo radunò ricordi di strane stagioni e particolarmente di rigidissimi inverni da Cesare, Livio, Orosio; da Matteo Villani, dal Corio, dal Giovio, dal Bembo, dal Ghirardacci etc., e dal Sigonio questo che vale per tutti: “L’inverno fu atrocissimo e seccò gli alberi e le viti. Il ghiaccio del Po fu grosso di 15 braccia, che però gli uomini per due mesi continui con le carra e bestie cariche ci passavano senza paura alcuna, anzi per ispasso ci ballavano e giostravano l’uno contro l’altro sicuramente„. ———— Un disinganno anche per le mamme che all’osservazione ingenuamente sagace del bimbo o della bimba prorompono tutte amore in una risata e dopo un movimento della testa, il quale significa — che ne dite? —, commentano serie serie: — I ragazzi d’una volta non erano certo cosí acuti e furbi. — Pur troppo, aggiunge il nonno, “il mondo va sempre di male in peggio e ne sa piú oggidí un putto di dieci che già un uomo vecchio di sessanta o settant’anni„. Ma don Lancellotti allora sorride e tende il dito alla verità: “Se fosse vero che l’istessa malizia precorresse piú oggidí gli anni di quello che faceva, e che andasse tuttavia crescendo e precorrendo, seguirebbe che non solo si potrebbe pensare che si fosse per giungere, ma — stando che piú di 1500 anni sono dicevano il medesimo, come asserisce Orazio, — che saremmo già a tal termine che un putto d’un anno e manco assai starebbe a fronte di sapere e d’operare con molti attempati„. E con un ragionamento press’a poco uguale induce a ricredersi coloro i quali pensano che gli uomini “sono _oggidí_ piú deboli e di statura piú piccoli di quello che mai fossero„. ———— San Giovanni Grisostomo, poveretto!, si riscaldava in particolar modo perché i giovanotti eleganti del suo tempo avevano “certi lacci, o fiocchi che fossero, di seta alle scarpe„, e si doleva del loro “specchiarsi, pettinarsi, farsi i ricci e profumarsi come le donne„; Ateneo e Seneca rimproveravano ai loro coetanei “le delicatezze del camminare e dell’adornarsi fuori di ordine e di misura„, e pure il Petrarca e san Bernardo si scagliavano contro le vanità maschili. Poi si verrà a dire: “Quanto ci vuole _oggidí_ per vestirsi ognuno da par suo! Costano un occhio i drappi e i panni e siamo venuti a termine che par vergogna ad una persona di mezzana condizione il non vestir di seta, che già prima né anche i gentiluomini ben ricchi quasi l’adopravano. Quante foggie hanno trovate questi benedetti sartori; quante vanità sono introdotte _oggidí_ da questi oltramontani, e tutte subito abbracciate da questa nostra curiosa imitatrice de gli abiti forestieri e sciocca Italia!„ ———— Manca voglia, ozio e carta, ma molt’altre belle cose proverebbe don Secondo con la sua meravigliosa erudizione. Proverebbe come sia storia vecchia anche il digiuno di Succi, poiché “Alberto Magno scrisse aver diligentissimamente osservato in Colonia un donna per trenta giorni essersi astenuta di mangiare e bere niente, et un uomo cinquanta giorni, eccetto che un giorno sí e l’altro no pigliava un poco d’acqua o di vino„; proverebbe come non è nuova la filantropia di quei medici che dimandano solo un centinaio di lire per un consulto, giacché anche Pietro d’Abano, medico padovano del secolo decimoquarto, “quando aveva da uscire della città per qualche infermo, non voleva manco di 50 fiorini„, e dimostrerebbe “che _oggidí_ non si veggono piú infermità di prima„; “che l’eccesso del dar titoli, non solamente a’ signori e príncipi, ma piú quasi a’ privati non è sí proprio d’_oggidí_, come comunemente si crede„; “che l’uso della neve o del ghiaccio la state non ha da rinfacciarsi al nostro secolo come eccessiva delizia d’_oggidí„_; “che ’l comun lamento intorno alle gran doti, le quali bisogna dare alle fanciulle o per maritarle o per rinchiuderle ne’ chiostri, non ha tal fondamento di ragione, che ciò debba computarsi per miseria d’_oggidí....„_ L’_Hoggidí, o vero il mondo non peggiore né piú calamitoso del passato_⁷⁶ è in somma un gran bel libro per chi sia convinto come sono io che ciò che fu torna e tornerà nei secoli. I NOVELLATORI E LE NOVELLATRICI DEL _DECAMERONE_ .... per nomi, alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte, intendo di nominarle. _Introd. al Decam._ Le novellatrici e i novellatori del _Decamerone_, che io seguii spesso, ad ascoltarne i racconti piacevoli, ne’ lieti diporti, tornano pur ora con imagini pronte e sicure e vivaci alla mia memoria: li accenno cosí come li rivedo seduti a novellare la prima giornata. I. Prima la regina, _Pampinea_⁷⁷. Ella, piú adulta, è anche piú esperta e riflessiva delle altre sei donne; come Panfilo, il quale le siede a lato, è tra gli uomini il maggiore in età e il piú avveduto e assennato: per questo l’uno e l’altra si distinguono dai loro compagni; si distinguono tra loro per ciò, che Pampinea, come donna, è piú sagace, Panfilo è di pensieri piú profondi. È Pampinea che nel tempio consiglia le compagne di cercare con la vita allegra fuori Firenze scampo alla peste e conforto ai dolori che ad esse ha apportati; e tiene meraviglioso e lungo discorso, nel quale movendo dai consigli della fredda ragione, che induce l’uomo a conservare per ogni modo la vita, s’allarga ad esporre la tristizia dei tempi presenti e la malvagità che si è introdotta negli animi, e, avvertendo che “nulla si disdice piú a loro l’onestamente andare che faccia a gran parte dell’altre lo stare disonestamente„, descrive in fine i piaceri e le bellezze della campagna con tale vivacità ed ardore, che niuna delle amiche le resiste dubbiosa, ma tutte lodano il suo consiglio con desiderio di seguitarlo. È lei che propone d’accettare a compagni Panfilo, Dioneo e Filostrato, e va essa a pregarli lieta ed ardita a che “con puro e fratellevole animo a tenere loro compagnia si debbano disporre„; e ad istanza di lei, perché le cose le quali sono senza modo non possono durare, si elegge un re ogni giorno, e si delibera di trascorrere il tempo non giuocando, ché nel gioco “l’animo dell’una delle parti convien che si turbi„, ma novellando. Pampinea ama dilungarsi, per ammonire e far riflessioni, nei preamboli alle novelle che narra e per notare i difetti suoi e degli altri e rilevare quanto per esperienza ha appreso o ciò che le sembra che meglio convenga. Cosí per la novella di maestro Alberto discorre della vanità e loquacità femminile, e rampogna e consiglia; per la novella di Alessandro Agolanti, che giacque con la figlia del re d’Inghilterra, della quale ei divenne marito, considera come la fortuna è mutabile; per la novella del savio re Agilulf e del palafreniere ardito e avveduto corregge i curiosi indiscreti: dimostra la verità di un proverbio narrando il miracolo dell’angelo Gabriello, e narrando dello scolare che fu burlato e burlò, prova che l’arte è dall’arte schernita, onde è poco senno dilettarsi di schernire altrui. Assorge anche con la novella del buon re Piero a princípi di retto governo politico. Pampinea ammette che amore possa guidare a gravi pericoli, ma tiene sciocca cosa il pensare che amore tragga altrui dal senno e “quasi chi ama faccia divenire smemorato„; e la canzone ch’ella canta n’assicura che pure amando sa serbarsi donna savia e prudente. Il suo amore è senza pene, senza timori: ella ha la certezza di essere riamata, la consolazione di “possedere il suo volere„ in questo mondo e la speranza di aver pace nell’altro per quella intera fede che porta a chi ama: ella è gioiosa e con la sua gioia allieta le compagne che sono afflitte, e né pur vuole acconsentire alla tristezza che Filostrato ricerca nelle novelle al dí del suo reggimento. II. Come Dioneo che siede appresso a Fiammetta, _Panfilo_⁷⁸, che il primo giorno sta accanto a Neifile, dev’essere di Neifile l’innamorato. Ella infatti canta per volere di lui, ed egli — fatto re — concede ad essa, ciò ch’ella tiene per grand’onore, di dare prima svolgimento all’altissimo tema della decima giornata, ed egli loda piú d’ogni altro la leggiadra novella di lei. Panfilo e Neifile sono due amanti felici; piú felici di Dioneo e di Fiammetta, perché Dioneo, dubitando nella veemenza della sua passione di non essere amato quanto egli ama, è spinto ad invocare la pietà della sua donna, e Fiammetta, nell’ardore dell’amor suo soffre per gelosia. Ma come Neifile, Panfilo non ha ragione di rammaricarsi d’Amore, giacché esso è anche per lui soavità, gioco, allegrezza, e la letizia che gli trabocca dall’animo e gli appare su ’l chiaro viso è tale che a lui ogni parlar sarebbe corto e fioco pria n’avesse mostrato pure un poco. Se non che sin nell’entusiasmo del canto, ch’egli leva pieno di gioia, riflette e pensa che quand’anche potesse, non dovrebbe dimostrare il suo piacere, “il quale se fosse sentito da altri gli tornerebbe in tormento„, e che non sarebbe creduto qualora dicesse il tempo e come poté indurre a baci ed a carezze la sua donna. Panfilo, al contrario di Dioneo, riflette sempre, e ammonimenti morali egli trae dalla considerazione di Dio e della virtú: ammonimenti di religione — ad esempio — reca nel racconto di ser Ciappelletto; di virtú, nella storia dell’Andreuola alla quale si avverò il sogno fosco; dei doveri verso gli amici, nella novella del Saladino. E porge prove di senno ed avvedutezza se dica i casi della figlia al Soldano di Babilonia, goduta in quattro anni da nove uomini e maritata poscia come vergine al re del Garbo, o della Niccolosa che dormí con l’amante mentre sua madre ostessa giacque con altri che con suo marito, o di Lidia che moglie a Nicostrato e amante di Pirro fu sí audace e lasciva. Questo giovane assennato e osservatore sottile non resta od è lasciato in disparte, come asserisce il Landau, ma anzi è dai compagni avuto quasi tacitamente a capo; ed infatti egli che è primo a novellare, è coronato re dopo tutti, come colui che essendo ultimo potrebbe emendare il difetto degli altri reggenti e novellatori. E re ordina: “Domani ciascuno di voi pensi di ragionare sopra questo, ciò è: di chi liberamente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno ai fatti d’amore, o d’altra cosa„. Ma se Panfilo, a quando a quando rigido ammonitore, non si abbandona alla licenza onde Dioneo parla, non è però piú castigato di Filostrato, e come lui con voluttuosa compiacenza cede alle lubriche frasi e si spinge alle frasi oscenuccie; e pur predicando “quanto sieno sante, quanto poderose, e di quanto ben piene le forze d’amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano a gran torto„, racconta novelle d’amore poco sante e di poco ben piene: ciò perché Panfilo non deve solo contrapporre la saggezza propria alla leggerezza di Dioneo, ma rallegrare pur egli le belle donne che stanno ad ascoltarlo. Ad esse egli si rivolge ubbidientissimo coi nomi piú dolci, e le chiama amorose e graziose e reverende e dilettose e carissime. Egli per esse e con esse non ha gli ardimenti di Dioneo e gl’impeti di Filostrato; è gentile sempre; è tutto amorevolezza. III. _Neifile_,⁷⁹ “non meno di cortesi costumi che di bellezza ornata„, è giovinetta fra le giovani donne: ha diciott’anni, e di fanciulla diciottenne l’irrequietezza e la giocondità, la fede religiosa, la pietà per i forti dolori, l’ammirazione per la potenza d’amore; ha le paure e le audacie: timorosa quando intravvede pericoli alla sua onestà; audace ogni qual volta, per non parere ingenua ed inesperta, vuol mostrarsi a dentro nei misteri dell’amore e nella conoscenza della vita. La irrequietezza dell’animo suo manifesta quand’è fatta regina, proponendo con brevi parole di cambiare di stanza, e comandando prestamente per essere tosto ubbidita e prestamente volendo si ragioni per non perder tempo; né si cura mai di preparare con lunghi preamboli alle sue novelle l’animo di chi l’ascolta. E per le gaie novelle diffonde l’allegrezza che le sale dal cuore: racconta essa di Martellino, che si finge rattratto; di Chichibio cuoco che la paura fa di spirito pronto; di Cecco giocatore che rimane in camicia per via. Niuna delle donne sente come Neifile la pietà religiosa: con la novella di Abraam giudeo essa prova come Dio si “dimostra verità infallibile allorché coloro, che di lui dovrebbero dare testimonianza con le opere buone, fanno il contrario„; con quella di Martellino avverte come male è “beffare quelle cose che sono da riverire„, e tiene fin disposizione di Dio s’ella in alcun giorno deve dar principio ai racconti, e da Dio spera aiuto quand’anche debba narrare le burle di una moglie al marito geloso: poi fatta regina, esorta di attendere nel venerdí e nel sabato, piú tosto che a novelle, a preghiere al Signore. E di che gentile pietà debb’essere capace l’animo suo, se con tanta dolcezza dice il fiero caso di Girolamo che morí a lato all’amata! D’amore parla con quell’entusiasmo e quel timore quasi religioso che è proprio delle giovinette soltanto. L’amore è fatale, ed è impossibile soffocarlo nel cuore in cui si è acceso, e male è il tentare di soffocarlo, ché, o si spegne da sé medesimo, o non si spegnerà mai: “Oh meravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze d’amore„! Ma amore è mite con lei, e di che gioia le sia prodigo ella giovinetta, “tutta letizia nella stagione novella„, confida alla sua fresca canzone e ai fiori cui parla, paragonando il suo innamorato ad un fiore, e ai sospiri che non “aspri e gravi„ ma “soavi e caldi„ le fuggon dal petto. Tale è Neifile; e le paure sue e la sua rattenutezza di fanciulla che ama, palesa fin da principio, nel tempio, quando Pampinea si rallegra per la venuta di Dioneo, di Filostrato e di Panfilo. “Neifile tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che alcuna era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: Pampinea, per Dio guarda ciò che tu dichi; io conosco assai apertamente niun’altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’uno di costoro, e credogli a troppo maggior cosa, che questa non è (ciò è di accompagnarle fuori Firenze), sofficienti, e similmente avviso loro buona compagnia et onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo. Ma perciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune, che qui ne sono, innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua, se gli meniamo„. E come vaga e cara quando, coronata regina da Panfilo, diviene rossa in volto e resta smarrita con gli occhi bassi, finché cessa il rumore delle lodi che a lei levano ammirando gli astanti! Pure essa, cosí modesta sino a che Dioneo non inanimisce lei e le altre donne con le lascive novelle e non è indotta ad imitare le compagne, queste poi quasi vince in ardire con la risposta che dà a Filostrato dopo la novella del diavolo messo all’inferno. IV. _Filomena_⁸⁰, “bella e grande della persona e nel viso piú che altra piacevole e ridente„, è piú volte lodata quale discretissima giovane, e la discrezione sua prova subito alla proposta che Pampinea fa di lasciare Firenze, osservando: “Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea, sia ottimamente detto, non è perciò cosí da correre come mostra che voi vogliate fare. Ricordovi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sieno ragionate insieme e senza la provedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare.„ Per questa qualità dell’animo suo ella gode raccontare come giudiziosamente procedé la donna che senza infamia fece il confessore inconsapevole mezzano al suo amore, e come cauti procederono i fratelli di Lisabetta colpevole nell’uccidere il drudo di lei; gode narrare con quale avvedimento madonna Francesca si levò d’addosso due che l’amavano contro al suo piacere, e Beatrice ingannò e fe’ bastonare il marito Egano da Ludovico suo amante. Alle novelle premette anch’essa qualche volta osservazioni e consigli, ma al contrario di Pampinea, non parla mai troppo. Né pure al pari d’Emilia e d’Elisa s’accende e s’adira discorrendo de’ religiosi, ma a proposito di un confessore burlato, s’accontenta di notare scherzando: “Vo’ farvi accorte che eziandio i religiosi, ai quali noi, oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere sono alcuna volta, non che dagli uomini, ma da alcune di noi _cautamente_ beffati.„ Questa cura costante di serbare certa misura è in Filomena non solo allorché racconta, ma sempre, in ogni suo atto, in ogni suo discorso. Cosí quand’è coronata regina da Pampinea, vincendo tosto, per non parere melensa, la confusione in cui resta un momento, afferma ai compagni: “Non solo il mio giudizio, ma anche il vostro vo’ seguire„; e co ’l tema che ella dà, “qualora non spiaccia„, a svolgere per novelle, toglie ragione cosí di dolore soverchio come di riso smodato: desidera si ragioni di chi “da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine„. E quando dalla dolcezza della canzone in cui lamenta la lontananza del novo amante sarebbe tratta a svelare tutto quanto in passato ha goduto e tutto quanto si ripromette di godere per l’avvenire, presto sa dominarsi: Se egli avvien ch’io mai piú ti tenga, — canta all’amante — Non so s’io sarò sciocca Com’io or fui a lasciarti partire. Io ti terrò, e che può, sí n’avvenga, E della dolce bocca Convien ch’io soddisfaccia al mio desire: _D’altro non voglio or dire...._ Né è a maravigliare se cantando lascia comprendere che del novello e piacevole amore ha sentito piú avanti che la sola vista, poiché la sua non è la riserbatezza d’una affettata modestia; ed ella che a Neifile, sbigottita allorquando Pampinea esorta a prendere per compagni gli amanti di alcune di esse, risponde: “Dov’io onestamente viva, né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario, Iddio e la verità per me l’armi prenderanno„, ella può bene anche arrischiarsi a dire quando accenna al godimento ch’ebbero due amanti una notte: “Prego Iddio per la sua santa misericordia, che a tali notti conduca me e tutte le anime cristiane che voglia ne hanno.„ V. Dioneo re del drappello Le Grazie afflisse.... _Dioneo_⁸¹, che il Boccaccio animò della franchezza, della vivacità, dell’ardore suo proprio, meglio che il re è l’anima del drappello. — “Fra voi tutte, discretissime e moderate, io, qual sento anzi dello scemo che no, facendo la vostra virtú piú lucente col mio difetto, piú vi debbo esser caro che se con piú valore quella facessi divenir piú oscura.....„ — dice egli, umile e carezzevole, alle belle donne innanzi di raccontare l’ultima sua novella, quasi che loro non fosse piaciuto subito il primo giorno in cui uscito di Firenze con esse ad esse dichiarò: — “Io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare; li miei lasciai dentro dalle porte della città..... E per ciò voi a sollazzare et a ridere et a cantare con meco insieme vi disponete (tanto dico quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni a starmi nella città tribolata.„ — Però a movere la temperata allegria di Panfilo, ad animare l’allegria che Filostrato trova a fatica, ad assicurare l’allegria delle donne spesso dubitanti, egli apporta la schietta ardita irresistibile allegria dell’animo suo. Ma all’occasione, e specie allorché le donne stimano proterva e temeraria la licenza del suo parlare, e temono per la loro onestà, Dioneo, non piú scemo, dimostra com’esse s’ingannino se credono ch’ei non sia capace di pensare e sentire nobilmente. Cosí se desidera che presto finiscano le dolorose novelle di cui Filostrato si compiace, è perché non solo alle donne, ma anche a lui “le miserie degl’infelici amanti contristano gli occhi ed il petto„; e se, fatto re, dà al novellare un tema che pare troppo arrischiato, egli prova che non deve pentirsi d’averlo scelto. — “Donne, io conosco ciò che io ho imposto, non meno che facciate voi, e da imporlo non mi poté istornare quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale che, guardandosi e gli uomini e le donne d’operar disonestamente, ogni ragionare è conceduto... La vostra brigata, dal primo dí infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si maculerà, collo aiuto di Dio...... Et a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe che voi in ciò foste colpevoli, e perciò ragionare non ne voleste„. — E questo giovane che affligge le Grazie narrando di Paganino da Monaco e di Alibech, di Pietro di Vinciolo e dell’incantesimo della cavalla, allorché l’oscenità gli sfugge, “arrossa un po’ per vergogna„ e gli dispiace d’“esser troppo bene compreso„. Ma le donne, “rosse nel viso, l’una all’altra guardando, appena dal ridere potendosi astenere, l’ascoltano sogghignando„; e ad esse è caro: Lauretta canta con lui, ed egli accompagna co ’l liuto il canto d’Emilia, e da Filomena regina ottiene una grazia; onde Fiammetta è gelosa. Ride Dioneo della gelosia di lei e per gelosia non soffre egli; non troverebbe anzi nel suo amore ragione alcuna di rammaricarsi se, tant’è ardente il suo affetto, non lo turbasse il timore che l’amata Fiammetta non conosca bene l’alto suo desio e la sua intera fede. ........ non so ben, se ’ntero è conosciuto L’alto disio che messo m’hai nel petto, (dice ad Amore) Né la mia intera fede, Da costei, che possiede Sí la mia mente, che io non torrei Pace fuor che da essa, né vorrei. Perch’io ti prego, dolce signor mio. Che gliel dimostri, e facciale sentire Alquanto del tuo foco In servigio di me; ché vedi ch’io Già mi consumo amando e nel martire Mi sfaccio a poco a poco..... VI. _Fiammetta_, “i cui capelli eran crespi, lunghi e d’oro, e sopra li candidi e delicati omeri ricadenti, et il viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati, tutto splendido, con due occhi in testa che parevan d’un falcon pellegrino, e con una boccuccia piccolina le cui labbra parevan due rubinetti„, Fiammetta, quale vive nel _Decamerone_, ha pure tutta la leggiadria regale della donna che nel _Filocopo_ presiede alla brigata intesa a risolvere le difficili questioni della scienza d’amore; ha pure la grazia della ninfa che “con atti d’autorità pieni, lieta e ridente„ narra nell’_Ameto_ come si concedette all’affetto di Galeone, e pur ha non poco della donna appassionata e gelosa che nel doloroso romanzo si strugge per l’abbandono del suo Panfilo. Non piú fidente giovinetta quale è Neifile, ella sa “come Amore vince tutte le cose„, e canta e lamenta: ...... perciò ch’io m’avveggio Che altre donne savie son com’io, I’ triemo di paura, E pur credendo il peggio, Di quello avviso in altre esser disio, Ch’a me l’anima fura (_cioè del suo amante_); E cosí quel che m’è somma ventura, Mi fa isconsolata Sospirar forte e stare in vita ria. Se io sentissi fede Nel mio signor, quant’io sento valore, Gelosa non sarei...... Ma tra le amiche del _Decamerone_ ella riesce ad attutire il tormento della gelosia e a scacciarne il cupo pensiero, e narra di cortesie e d’amori, lieta in viso e ridente come tra le compagne dell’_Ameto_. E ricorda: “Noi siam qui per aver festa, e buon tempo.„ Via dunque ogni cagione di dispiacere! — e pur raccontando di Tancredi ella è mal disposta al tema dato da Filostrato; — via tutto ciò che possa inacerbire gli spiriti! — e dopo la novella dello scolare, la cui severità ha trafitta lei e le compagne, osservando prima come la vendetta non dev’essere soprabbondante, narra l’allegra istoria dei due che si accomunarono le mogli —; via anche ciò che possa muovere leggermente ad ira! — e la decima giornata, quando nella nobile gara di chi narri azioni piú nobili, gli animi delle compagne s’accendono disputando, essa innanzi di dire la sua novella ammonisce: “Splendide donne, io fui sempre in opinione che nelle brigate come la nostra è, si dovesse sí largamente ragionare che la troppa strettezza della intenzione delle cose dette non fosse altrui materia di disputare. Il che molto piú si conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rócca et al fuso bastiamo.„ Cosí Fiammetta, dopo le tristi, dà tema alle felici novelle: “Ciò che ad alcuno amante dopo fieri o sventurati accidenti felicemente avvenisse.„ D’amore ogni suo pensiero, e amore è la sua vita; né fa commento alcuno a quello che racconta se non per consigliare chi ama o chi è per amare. Al modo stesso che nel _Filocopo_ risolve la questione di Pola, se piú alta debba essere la condizione dell’amata o dell’amante, asserendo che “quantunque la donna sia ricca, grande e nobile piú che ’l giovane in qualunque grado, o dignità si sia, ella deggia piú tosto dal giovane essere amata, che quella che alcuna cosa ha meno di lui„, facendosi a narrare la prima novella del _Decamerone_ afferma: “Quanto negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di piú alto lignaggio ch’egli non è, cosí nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dallo amore di maggiore uomo ch’ella non è.„ — Bene dunque Fiammetta figlia di re e Dioneo figlio di mercante fiorentino possono amarsi e di amore pari a quello di messer Guglielmo e della dama di Vergiú, dei quali cantano insieme le gioie e gli affanni. VII. _Emilia_⁸² non imita Pampinea considerando le passioni umane e i casi della vita e traendo dalle considerazioni sue ammaestramenti utili e morali; non ostenta la prudenza e la discrezione di Filomena, e come mostra di non comprendere dolori quali sono quelli di Lauretta e di Elisa, vorrebbe far credere di non curare godimenti quali sono quelli che consolarono e consolano Fiammetta e Neifile: per arte di seduzione vuole persuadere che dall’amore di sé deriva un piacere di cui nulla e nessuno la può privare, e sí fatto che ad altro amore non pensa e d’altro amore non ha né pur coscienza d’aver desiderio: Io son sí vaga della mia bellezza, Che d’altro amor giammai Non curerò, né credo aver vaghezza. Civettuola! Non s’avvede poi che con l’impeto onde magnifica il prepotente amore della Simona accerta che non le dispiacerebbe punto di essere risottomessa alla forza di quella passione di cui si vanta ribelle, né, per quanto astuta, s’invigila sempre in guisa da non tradire talvolta un desiderio o i ricordi: cosí, nella sesta giornata còlta in distrazione da Elisa regina deve pur confessare “soffiando non altrimenti che se da dormir si levasse, che un lungo pensiero molto l’ha tenuta lontana.„ Ma, del resto, quale spontanea e graziosa vivacità e franchezza nel suo carattere! Canta prima di tutte e quando racconta è impossibile dimenticarsi che lei sola può parlare in quel modo; e però lo scrittore lascia che per sé medesima si faccia conoscere, e si cura solo d’avvertire innanzi la sua prima novella ch’essa narra _baldanzosamente_ e di ripetere innanzi alla decima, l’ultima — quasi ad imprimere meglio il carattere di lei ripetendo la parola la quale ne raccoglie l’intera espressione — “che prese a raccontare _baldanzosamente_, quasi di dire desiderosa.„ Di novellare desiderosa non si perde in preamboli. Rapida sempre, alle volte è incisiva nel suo discorrere, e ne’ suoi racconti quasi sempre è un personaggio che dell’animo suo ha l’ardimento e la forza: però sembra di comprendere la compiacenza di lei quando narra l’animosa difesa di Giannotto in conspetto a Corrado, o la veemenza con cui Tebaldo in conspetto alla amata donna maledice ai preti ed ai frati, dei quali ancora non bisogna perdonare le ingiurie, o la fierezza di madonna Dianora in presenza al barone amante e la fortezza con cui ella sostiene la pena che la sua stessa baldanza le ha procurata. Dunque bene Dioneo si rivolge a lei affinché, date a narrare le burle che le mogli fanno ai mariti, tolga ogni titubanza alle compagne cominciando per prima i racconti dei ridevoli casi con la libertà delle frasi ridevoli, e bene Emilia, che male “si restringe sotto qualunque giogo„, fatta regina, lascia, “come buoi al prato„, le compagne libere al tema. VIII. _Filostrato_ “tanto viene a dire quanto uomo vinto ed abbattuto da amore„⁸³. E di Troilo — il carattere del quale è forse il piú bello del _Filostrato_ — non fu mal detto: “Natura ardentissima, non conosce né patria né religione: non ama e non vede che Griseida. Quasi ogni giorno si slancia animoso nel campo dei Greci in cerca di gloria per illustrarsi agli occhi della sua bella. È l’amore che lo rende eroe. [84]_„ Troilo, non piú eroe di poema, ma ancora spirito ardente, nato per combattere e per soffrire, rivive di vita reale nella lieta compagnia del _Decamerone_. Quando è coronato re dice alle donne: “Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d’alcuna di voi stato sono ad amor soggetto; né l’essere umile, né l’essere ubbidiente, né il seguirlo in ciò che per me s’è conosciuto alla seconda in tutti i suoi costumi, m’è valuto, ch’io prima per altro abbandonato, e poi non sia sempre di male in peggio andato: e cosí credo che io andrò di qui alla morte.„ E a lui piace si ragioni di coloro “li cui amori ebbero infelice fine.„ Pur mentre le novelle si svolgono fiere tutte, tranne quella di Pampinea, come il suo amore, egli cade in profondi pensieri e al terminare di esse esprime con lamentevoli parole e con rigidi atti com’egli per amore arda e soffra, e ogni ora “mille morti senta, né per tutte quelle una sola particella di diletto gli sia data.„ Cosí quando, vinto ed abbattuto dalla passione, nella canzone ch’egli canta per volere di Fiammetta regina invoca la morte, non esagerato, non inverosimile, ci sembra il suo dolore. Null’altra via, niun altro conforto Mi resta piú che morte alle mie doglie: Dàllami dunque omai, Pon fine, Amor, con essa alli miei guai E ’l cor di vita sí misera spoglia...... Quale è la donna nel cui viso, allora che Filostrato resta di cantare, appare il rossore della colpa e del rimorso? Le tenebre della sopravvenuta notte nascondono quel rossore, né io so distinguer tra le sette giovani colei ch’è traditrice e crudele. Emilia, la quale potrebbe per la leggerezza sua aver somiglianza con la Griseida del _Filostrato_, non parmi, poiché ella asserisce che “amare merita piú tosto diletto che afflizione a lungo andare„; non Lauretta, cui non possono riferirsi le parole di Filostrato: Fa costei lieta, morend’io, signore, Come l’hai fatta di nuovo amadore; giacché Lauretta rimpiange un morto amante e vive malcontenta di lui che l’ama al presente. Forse è Filomena, la discreta Filomena, che le compagne invidiano appunto pe’l “nuovo e piacevole amore.„ Avvertito da Fiammetta che non gli è concesso di rattristare troppo a lungo gli altri con i suoi travagli, dopo la quarta giornata il giovane, infelice chiede perdono alle gaie donne e si propone di ridere e di muovere a riso. Però narra la novella dell’usignolo che fu preso dalla figlia, di Ricciardo Manardi, e di Filippa adultera che si liberò con un motto della pena di morte, e di Peronella, e di Calandrino pregno, e del giudice cui furono tolte le brache: torna la fierezza e la nobiltà dell’animo suo a dominare la stupenda novella di Mitridanes e Natan. IX. _Lauretta_⁸⁵ allorquando si prepara alla novella di Landolfo Ruffolo, la quale benché contenga grandi miserie ha “splendida riuscita„, si rivolge agli ascoltanti con queste parole: “Ben so che pure a quelle miserie avendo riguardo, con minor diligenza fia la mia udita, ma altro non potendo, sarò scusata.„ E quando Filostrato re le chiede di cantare: “Signor mio — risponde —, delle altrui canzoni io non so, né delle mie alcune n’ho alla mente che sia conveniente a sí lieta brigata: se voi di quelle che io ho volete, io dirò volontieri.„ Ella parla in tono umile e accarezza con molte lodi le compagne, in ispecie la piú ardimentosa, Emilia; è timida e, per abitudine, dolcissima; eppure in udirla affidare quello che pensa e sente di sé alla sua canzone apparirebbe tutt’altra. Niuna sconsolata Di dolersi ha quant’io, Che ’n van sospiro lassa innamorata. Colui che muove il cielo ed ogni stella Mi fece a suo diletto Vaga, leggiadra, graziosa e bella, Per dar qua giú ad ogni alto intelletto Alcun segno di quella Biltà, che sempre a lui sta nel cospetto; Et il mortal difetto, Come mal conosciuta, Non mi gradisce, anzi m’ha disperata. E, seguitando, dal ricordo del morto amante che ......... volentieri Giovinetta _la_ prese Nelle sue braccia e dentro a’ suoi pensieri, tratta a considerare la presunzione e la fierezza del suo innamorato che di lei è geloso a torto, s’abbandona al dolore e all’ira ed esclama: ........ io lassa quasi mi dispero, Cognoscendo per vero, Per ben di molti al mondo Venuta, da uno essere occupata. Io maledico la mia sventura, Quando, per mutar veste, Sí, dissi mai.......... E rimpiange la vita oscura e l’oscuro amore d’un tempo, e prega l’amico, il quale ella ha in Cielo, che ridivenga pietoso di lei e da Dio le impetri di andare a lui. Dal contrasto tra la franca e sdegnosa sincerità di questa canzone, per cui alcuno della compagnia ripensa maligno il detto milanese “meglio un buon porco che una bella tosa„, e la dolce e timida umiltà dei suoi discorsi, Lauretta sorge su viva, mirabilmente. Non è in essa il tipo della donna che loda gli altri sperando a sé guiderdone di lodi maggiori, e innanzi agli altri si umilia bramando la levino essi a grande stima, finché, nel timore di essere disprezzata e nella certezza di non essere da quello stesso che ama pregiata sí come merita, caccia l’usata modestia ed incolpando la tristezza altrui, accesa d’ira e cieca di orgoglio, esagera le proprie virtú? Impeti questi di animo debole; ed essa è infatti cosí debole che adiratasi, se ne pente, e per riaversi d’ogni cattivo giudizio, il giorno dopo si pone a considerare negli altri il proprio difetto e i danni partoriti dall’ira, e cerca scusarsi scusando la fragilità femminile: “...... Se ragguardar vorremo, vedremo che il fuoco di sua natura piú tosto nelle leggiere e morbide cose s’apprende, che nelle dure e piú gravanti; e noi pur siamo (non l’abbiano gli uomini a male) piú delicate che essi non sono e molto piú mobili.„ Mobile ad ogni affetto, essa finisce la novella di Tofano esclamando: “E viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata!„, con commozione di gioia pari a quella d’entusiasmo con cui l’incomincia: “O Amore, chenti e quali sono le tue forze! chenti i consigli, e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli dimostramenti che fai tu subitanei a chi seguita le tue orme?....„ Tale, s’io l’ho ben veduta, è Lauretta. X. _Elisa_⁸⁶, anzi acerbetta che no, “non per malizia, ma per antico costume„, è d’animo molto sensibile e nell’abbandono in cui la lascia l’uomo da lei amato è la causa del suo dolore inconsolabile. ..... Et è sí cruda la sua signoria, Che giammai non l’ha mosso Sospir né pianto alcun che m’assottigli. Li prieghi miei tutti glien’ porta il vento, Nullo n’ascolta, né ne vuole udire: Per che ogni ora cresce ’l mio tormento; Onde ’l viver m’è noia, né so morire.... È Elisa dolorosa che racconta la miserevole istoria di Gerbino e della figlia del re di Tunisi, i quali innamorarono l’uno dell’altra per udita, senz’essersi veduti mai; ella è che descrive le sofferenze del mite conte d’Anversa; ella è che avvolge di sospirosa pietà il racconto del puro e veementissimo amore il quale fu tra la figlia del conte d’Anversa e il figlio della dama inglese. Ma, come accade, Elisa è inasprita dal suo stesso dolore, sí che quasi a vendetta di sé, la quale si lascia commovere dall’infelicità altrui e dal ricordo della sua infelicità, ama le novelle di cui i personaggi han l’animo pieno d’acerbità e d’amarezza: tutta festevole ripete le parole con cui la Guasca scosse il re pusillanime; esalta la severa e pronta risposta di Guido Cavalcanti agli amici beffardi, e il modo onde la monaca si liberò dal castigo che la badessa volea infliggerle; e d’un’acre gioia avviva il racconto della lezione che Ghino di Tacco diede all’abate di Cligní. Piú, Elisa regina comanda che argomento alle novelle sia la prestezza dei motti, perché da sí fatte novelle esse ed altri possano trarre vantaggio. È acerba quando, prima di novellare, ammonisce, e, ad esempio, avanti la novella dello Zima essa dice: “Credonsi molti, molto sapiendo, che altri non sappia nulla, li quali spesse volte, mentre altri si credono uccellare, dopo il fatto sé da altri essere stati uccellati conoscono„; e avanti quella della badessa caduta in peccato: “Assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e castigatori; li quali, come voi potrete comprendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta, e meritamente, vitupera.„ Se, ne’ rari oblii dell’intima cura, è pronta al riso, piú pronta è allo sdegno: ride infatti piú delle compagne ai princípi delle oscene canzoni che Dioneo vorrebbe cantare, ma tosto lo minaccia dell’ira sua; nello stesso modo che dopo aver riso di gran cuore al litigio fra Licisca e Tindaro, Licisca, la quale troppo lo prolunga, minaccia di bastonate. Ed è Elisa che irrompe come niuna delle sue compagne sarebbe capace, e per due volte, contro i frati ed i preti. ———— Il _Decamerone_ è veramente, come già altri affermò, un romanzo d’amore con vita e vicende di personaggi: vivono essi nel libro immortale e non per azioni, ma per i loro discorsi, per le canzoni e per le novelle rivelano e rilevano i loro caratteri. Il Landau dopo avere a pena accennato alle figure di Dioneo e di Fiammetta, di Filomena e di Panfilo, scrisse: “Anche gli altri narratori sembra che sieno stati realmente, e la maggior parte di essi rappresenta nella descrizione del poeta un carattere determinato„; ma invece il Körting avvertiva un carattere determinato solo in Fiammetta. A conforto di quel che pensava il Landau il signor Camillo Antona-Traversi ripeté le parole del Carducci: “Quei giovani e quelle donne, pur nella lieta concordia con cui servono all’officio di narratori, sono gente viva, hanno un carattere spiccato ciascuno, e ne improntano la loro narrazione„, e, sempre per oppugnare il Körting, non accorgendosi poi di contraddire in certo modo al Carducci e di dar ragione e torto a tutti e due i critici tedeschi, aggiunse di suo: “I dieci personaggi del _Decamerone_, piú che persone, sono dieci leggiadrissime macchiette disegnate da mano provetta, sotto cui si rivela il grandissimo e geniale artista. [87]_„ No, no, non macchiette: i dieci personaggi del _Decamerone_ sono proprio dieci persone leggiadrissime! LA NOVELLA DI FIORDILIGI Iroldo amava Tisbina come già Tristano amò la regina Isotta, e quanto bene Isotta volle a Tristano, Tisbina voleva ad Iroldo: per questo vivevano lieti e contenti. Ma in digrazia d’entrambi la bella dama, trovandosi un giorno con molte persone a un suo giardino in Babilonia, ebbe vaghezza di certo gioco pe’l quale alcuno, nascostole il capo in grembo e levata una mano dietro il dorso, dovea indovinare chiunque veniva a batterlo su la palma; e secondo la sorte e la vicenda del gioco anche Prasildo s’inginocchiò dinanzi a Tisbina e le posò il capo nel grembo. Prasildo era un gentile e valoroso barone. Nella soave positura egli si sentí dunque accendere improvviso in cuore un fuoco di cui mai aveva sentito l’uguale; una sí viva fiamma che per timore avrebbe voluto non dovere piú rialzarsi, e cercava di non indovinare; e questa fu la prima radice della sua passione senza conforto. In breve a tal partito lo condussero Amore e l’altera resistenza di Tisbina che un dí, piena l’anima di tristezza, si ridusse in un boschetto a piangere e a meditar di morire. — Udite voi, fiori, — diceva con lamentevole voce — e voi, piante, e tu, sole, le mie parole estreme, e vedete la mia cruda fine; ma che nessuno la sappia, perché colei che mi vi forza potrebbe ricevere incolpazione di crudeltà, ed io pur sí crudele l’amo e l’amerò ancora nell’altro mondo. — Cosí trasse la spada dal fianco, e pallido per la morte imminente chiamò piú volte Tisbina, quasi nel nome di lei il paradiso si dovesse aprire al suo spirito. Ma Tisbina si trovava per caso proprio là presso a lui; giacché venuta a caccia in quel luogo con Iroldo, l’uno e l’altro avevano ascoltate le querele dell’infelice giovane e con tanta pietà, che quando egli ripeté il suo nome, ella si fece innanzi di tra le fronde e, come ivi fosse giunta allora allora, tutt’ansiosa e tremante gli disse queste parole: — Prasildo, se tu m’ami non mi abbandonare, ché sono in pericolo dell’onore e della vita; e io ti faccio sicuro del mio bene se tu compirai ciò che mi vuole e ti domando. — Bisogna sapere che oltre la selva di Barberia era l’orto dove Medusa custodiva il tronco del tesoro dai rami d’oro e dai pomi di smeraldo, e che Medusa era una rea femmina la quale a vederla ammaliava in guisa da togliere ogni piú salda ricordanza del tempo trascorso; onde Tisbina, per consiglio di Iroldo, disse a Prasildo ch’avea gran necessità d’un ramo del prezioso tronco. Ma un assai cattivo consiglio aveva dato Iroldo alla sua donna, sapendosi bene che l’amore vince tutte le cose. ———— Ricorderete come anche madonna Dianora sdegnosa dell’amore di messer Ansaldo Gradense, pensasse liberarsi di lui con domandargli, se voleva gli compiacesse, un giardino di gennaio bello come di maggio, e come messer Ansaldo, pur comprendendo che nella richiesta era una cosa quasi impossibile, tanto s’adoprò e ricercò che un negromante, a condizione di grandissima mercede, la mattina del primo dí di gennaio fece apparire un giardino quale era desiderato. Quanto patí allora madonna Dianora!; e a lungo avrebbe pianto la sua onestà perduta, se messer Ansaldo, in udire la generosità del marito di lei, che la mandò a lui affinché, non trovando via di sciogliersene, osservasse la data parola, generosamente non l’avesse sciolta dell’obbligo contratto per sua poca considerazione. ———— Prasildo, dunque, speranzoso d’amore, senza por tempo in mezzo e avanzando sé stesso d’ardire e di desiderio si pose in viaggio; traversò in nave il mar Rosso e giunse ai monti di Barca. Ivi, a sua gran fortuna s’imbatté in un vecchio pellegrino, il quale udita la cagione del suo viaggio gli insegnò la maniera di compier l’impresa: entrasse nel giardino di Medusa dalla porta della Povertà recando uno specchio in cui Medusa si scorgesse riflessa non già co ’l viso candido e vermiglio, che dimostrava per malia, ma con la faccia, che aveva per natura, di serpe orribile e feroce, e cosí la facesse fuggire atterrita di sé medesima dalla custodia dell’albero d’oro; spiccato il ramo, uscisse per la porta della Ricchezza lasciando un po’ del ramo all’Avarizia, la quale alla Ricchezza sta sempre d’accanto. Ciò fece il barone, e poté tornare in patria tutto giulivo; poté far sapere alla dama amata ch’egli era pronto a mostrarle il ramo d’oro di cui l’aveva richiesto. All’annunzio Tisbina fu ferita da acuto cordoglio e stesasi su ’l letto ruppe in lamenti della sua sorte e dell’amante, e pur questi, come l’udí lamentare e n’apprese la ragione, pianse e si dolse senza misura. Stringeva al seno Tisbina sua e confondendo le sue lagrime con quelle di lei diceva invano che meritava pena egli solo, perché egli stolto l’aveva fatta fallire, e che morire toccava a lui solo: la dama voleva la morte con lui a pena che avesse attesa la promessa a Prasildo. Pertanto i due amorosi infelici ordinarono di bere il veleno che un medico saggio ed antico preparò loro in sí fatta tempera, che avrebbe dovuto privarli dell’anima con singolare dolcezza. Prima Iroldo sorbí metà della tazza, poi la porse alla dama senza guardarla, ed ella la vuotò fino al fondo. E dire che fu per lei un martirio piú grande il dovere andare a Prasildo!; e nondimeno v’andò. — Per mantenere ciò che ti giurai perdo l’onore ma anche la vita — gli disse quand’egli scorgendola patita e lagrimosa volle allietarla con belle parole; e alla fine il barone apprese quel che non avrebbe mai voluto apprendere. Di che afflitto oltremodo, rimproverò Tisbina d’aver dubitato della sua cortesia e l’assolse del giuramento; e poiché ella tra breve sarebbe morta, seco stesso deliberò di seguitare il suo esempio. Non era cosa nuova che due amanti si dessero la morte, ma sarebbe stata nuova che tre morissero per un solo amore: se non che il medico antico e saggio essendo venuto in sospetti si recò dal barone allorché questi, partita la dama, stava per compiere il suo divisamento, e a tempo poté accertarlo che non già un veleno, bensí un mite narcotico aveva preparato a Tisbina. Avvenne pertanto che Prasildo corresse a casa d’Iroldo, il quale di già risvegliatosi gemeva accanto la sua donna in sembianza di morta, e gli spiegasse come il succo bevuto non era neppure nocivo e come la dama era libera per suo volere dell’obbligo verso di lui. Allora Iroldo sentí rifluirsi la vita al cuore; e, tanto fu cortese, volle vincere la generosità di Prasildo; volle che la bella donna restasse di lui, ed egli incontanente partí da Babilonia. Per vero Tisbina, quando riebbe i sensi e seppe l’accaduto, tramortí una volta e due; ma via!, si rassegnò poi presto. Ciascuna donna è molle e tenerina Cosí del corpo come de la mente; E simigliante de la fresca brina Che non aspetta il caldo al sol lucente: Tutte siam fatte come fu Tisbina, Che non volse altra battaglia per nïente, Ma al primo assalto subito si rese, E per marito il bel Prasildo prese. ———— Cosí Fiordiligi finí la novella raccontata a Rinaldo per distrarlo dalla noia del viaggio, che entrambi avevano da percorrere in groppa allo stesso cavallo, e dalla cupidigia che gli potea venire della sua bellezza. E Fiordiligi fu abile raccontatrice: la patetica istoria scese canora dalle sue labbra, disinvolta e atteggiata in leggiadria d’ottave, e non già aspra per forma di stecchiti periodi e non interrotta. Ma s’io m’interruppi fu per un salto di pensiero, per un lampo di memoria che mi richiamò al Boccaccio; e, del resto, credo che nel caso mio uno qualunque de’ giovinetti eruditi i quali si atteggiano a Rajna e a Landau e spasimano alla ricerca delle fonti non già di belli e regali fiumi, ma di arsi ruscelletti e di gore morte, e vagano in oriente ed occidente e traversano secoli per scoprire un riscontro casuale, pur che paia necessario, a una frase o a una imagine; uno qualunque di quei tanti che sanno tante nuove cose di storia letteraria, affermerebbe e insegnerebbe: — Nel canto duodecimo, parte prima dell’_Orlando_, il Boiardo imitò, parafrasò, copiò la quinta novella della decima giornata del _Decamerone_. E, come vuole la critica positiva, si prova. Messer Ansaldo Gradense fu “uomo d’alto affare e per arme e per cortesia conosciuto per tutto„, e Prasildo è “un barone„. Di Babilonia stimato il maggiore; E certamente ciò ben meritava, Ch’è di cortesia pieno e di valore. Molta ricchezza, di ch’egli abbondava, Dispendea tutta quanta in farsi onore; Piacevol ne le feste, in arme fiero, Leggiadro amante e franco cavaliero. Madonna Dianora andò a casa di messer Ansaldo “in su l’aurora, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso„; e quando Tisbina andò a casa di Prasildo Era di giorno e lei accompagnata. Nota Gilberto che “quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile„, e Tisbina: Deh quanto è pazza quell’alma che crede Che amor non possa ogni cosa compire!; e cosí via. Prove di nessun valore; ma senza tener conto di esse si può anche ammettere che il Boiardo rammentasse il Boccaccio, e non si può negare certa somiglianza nella concezione generale del racconto e la quasi identità nelle condizioni in cui son posti i personaggi. Se non che quanta differenza ne’ tratti, nel colore, nell’atteggiamento tra le figure del poeta e del novelliere, e quanto diversa l’arte di questo dall’arte di quello! Vedete: Tisbina è una creatura graziosa nella sua dolcezza e debolezza. Per amore non vuol concedere ad altri le gioie che concede al suo amante e vuol morire con lui; non ama il barone, ma lo compiange e l’ammira, e glielo dichiara fin prima d’essere assoluta dalla sua promessa. Dopo, gli dà un bacio e lo consola; ultimamente gli si acconcia tosto e volentieri. — Dianora è nobile donna, forte, sdegnosa. Amava suo marito? Non è detto: per onestà rifiuta i meravigliosi doni e disprezza la fama dell’innamorato Gradense; per onestà, e non per pietà, con domanda di cosa creduta impossibile tenta indurlo a cedere dinanzi la sua resistenza. Curiosa come ogni donna, si reca a vedere il giardino a pena comparso e lo loda, ma ritorna a casa afflitta “a quel pensando a che per quello era obbligata„; non pensando al cavaliere il cui fervente amore ha potuto tanto; e se il marito non la costringesse, sarebbe disposta a perdere piú tosto la stima di donna leale che di moglie onorata. Accompagnata e in su l’aurora, per non esser vista, va a casa del barone, e senza troppo ornarsi, perché il marito le ha fatta raccomandazione di cercar via a disciogliersi dalla promessa serbando puro il suo onore, e primo mezzo a riuscire nell’intento ella pensa trovare nel mostrarsi poco piacevole: miracolo della virtú che in questa donna può piú della vanità! Ogni altro mezzo adopera poi, senza pregare né piangere, nelle sue poche parole al barone. Gli dice: — “Né amor ch’io vi porti, né promessa fede mi menan qui.... — Non l’ama né pur ora, né l’amerà mai; e piuttosto che acconsentire ai suoi desideri mancherebbe alla parola data —... ma il comandamento del mio marito, il quale, avuto piú rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatto venire.„ — Rileva la liberalità del marito e incolpa l’amante; rileva che suo marito è debole, ch’ella è forte; che suo marito ha compassione di lui e che essa no. Né altro concede ad Ansaldo se non una dignitosa espressione di gratitudine: — “Niuna cosa mi poté mai far credere, avendo riguardo a’ vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta, che quello ch’io veggio che voi ne fate; di che io vi sarò sempre obbligata.„ — E chi affermerebbe che Iroldo e Prasildo furono foggiati sui tipi stessi del marito e dell’innamorato di Dianora? Gilberto è ritratto d’uomo che è inflessibile nell’adempimento del dovere; che riflette e non può essere perturbato a lungo dalle commozioni: si adira alla confessione della moglie, ma tosto si frena e la rimprovera mite; non inveisce contro il barone, ma anzi affermando che quasi ogni cosa è agli amanti possibile, sembra scusarlo, e certo lo stima, se ha speranza che Dianora possa ottenere da lui di non macchiare la propria onestà. Leale cavaliere e sicuro della fedeltà della moglie, nella scelta tra il disonore che ella si ceda per una volta all’amante e il disonore ch’ella manchi alla data parola, non può restare a lungo dubbioso; e gode e confessa di sentirsi capace di un sacrificio che nessuno forse saprebbe compire. Lo piega ad esso anche il timore del negromante, è vero, ma senza questo tanta vigoria d’animo non sarebbe un po’ inverosimile? Ansaldo arde d’amore e splende di magnificenza e d’ogni lode, tuttavia Gilberto non teme, perché sa che sua moglie potrà concedergli il corpo, l’animo no, e perché sente, con sentimento il quale noi vantiamo di moderna perfezione spirituale, che la donna contaminata dall’amore di chi ella non ama è ugualmente degna d’affetto e di stima. Ansaldo Gradense è il signore di grand’animo, sicuro di sé in ogni parola e in ogni atto, ripugnante da ogni voglia disordinata e volgare. Per la donna che ama cerca e procura ciò che egli stesso credeva impossibile; ma quando Dianora viene alla sua casa, le muove incontro composto e rispettoso e la prega, “se pure il lungo amore il quale le ha portato merita alcun guiderdone„, di dirgli la ragione della sua venuta, giacché tal donna non deve esser là per soddisfarlo del suo desiderio. E udita la risposta di lei e sentita improvvisa la invidiabile liberalità di Gilberto, subito scioglie madonna Dianora del doloroso legame e le raccomanda di rendere grazie al marito che stima e amerà sempre come un fratello. Iroldo e Prasildo sono invece due cavalieri molto simili nella grazia dell’aspetto e ugualmente appassionati e appassionabili e poeticamente piú docili agli affetti che alla ragione. Per compassione Iroldo suggerisce a Tisbina il mezzo di salvare Prasildo; e venendo da lui il consiglio, è meno mirabile la sua generosità quando prega la donna (egli prega e non comanda come Gilberto) di andare all’amante; per disperazione beve il veleno; per riconoscenza scongiura il Cielo a rimeritare Prasildo della sua cortesia; per emulazione di generosità lascia Tisbina a Prasildo. Prasildo è timido come l’amico: va incontro a Tisbina onorandola, ma non sa che si fare per la vergogna, e l’assolve del giuramento per provarle ch’egli non ha mai voluto dispiacerle, piú tosto che per riconoscenza della lealtà di lei e delle generosità d’Iroldo. In sostanza, nella novella di Fiordiligi non è il meraviglioso rilievo dei caratteri, la scultoria interezza delle figure ottenuta dal Boccaccio, come seppe egli solo, con brevità e semplicità di mezzi: essa è una gentile e pietosa narrazione e rappresentazione di fatti per finzione poetica diffusi ed elevati a tragica intensità: i personaggi del novelliere predominano ai casi in cui vengono per forza d’amore, per necessità di doveri, per disposizione d’animo; dove i personaggi del poeta soggiacciono alla forza dei casi loro e nella gravità di essi e nell’urto violento delle passioni smarriscono colorito e fisonomia. In sostanza non mi pare che il Boiardo abbia imitato troppo il Boccaccio. Ma che poesia è la sua! E quanta dolcezza e freschezza per tutto l’episodio, e che ingenua espressione di passione umana, pur finamente osservata, nell’invenzione romanzesca! Iroldo in disperazione beve il veleno: E poi che per metade ebbe sorbito Sicuramente il succo venenoso, A Tisbina lo porse sbigottito. Non essendo di morte pauroso, Ma non ardisce a lei far quell’invito, Però, volgendo il viso lagrimoso, Mirando a terra la coppa le porse, E di morire allora stette in forse. Non del tossico già, ma per dolore, Che ’l venen terminato esser dovria. Ora Tisbina con frigido core, Con man tremante la coppa prendia, E biastemmando la fortuna e amore, Che a fin tanto crudel la conducia, Bevette il succo ch’ivi era rimaso, In sino al fondo del lucente vaso. Iroldo si coperse il capo e ’l volto, Perché con gli occhi non volea vedere Che ’l suo caro desío gli fosse tolto.... E che elegante mollezza di versi nelle similitudini semplici e delicate! Prasildo si strugge d’amore: Ma quale in prato le fresche vïole Nel tempo freddo pallide si fano Com’il splendido ghiaccio al vivo sole. Cotal si disfacea ’l baron soprano, E condotto era a sí malvagia sorte Ch’altro ristor non spera che la morte. E quando riceve consolazione, ché né egli né Tisbina morirà di veleno: Come dopo la pioggia le vïole S’abbattono e la rosa e ’l bianco fiore: Poi quando al ciel sereno appare il sole, Apron le foglie e torna il bel colore; Cosí Prasildo a la lieta novella Dentro si allegra e nel viso si abbella. ———— A dire la verità, strana e inaspettata riesce la deliberazione e la ripetizione dell’atto generoso per cui Iroldo lascia Tisbina, che tanto ama e da cui è amato tanto, a Prasildo, e fugge di Babilonia; ma al Boiardo non bastava concludere, come il Boccaccio, senza prove dell’amicizia seguita ne’ due cavalieri: al Boiardo bisognavano gli epici tipi di amici perfetti, e Iroldo e Prasildo, personaggi della novella di Tisbina, diverranno personaggi vivi e attivi del poema; e incorrendo a gravi pericoli, per vicendevole salvezza a vicenda s’esporranno alla morte. ———— Erano già due lunghi anni che Iroldo, rimeritato il liberale Prasildo con lasciargli la parte dell’anima sua, andava pellegrinando e dolorando pe’l mondo, quando un dí pervenne al paese d’Orgagna. Vi regnava Falerina la trista, che era maestra di tutte le frodi e di tutti gli incanti e all’ingresso d’un vago giardino manteneva un serpente voglioso di carne umana: per questo nessun forestiero sfuggiva dalle lusinghe di lei e poi dai denti del mostro. E anche il misero Iroldo fu preso d’inganno, e da quattro mesi attendeva in carcere insieme con molti miseri cavalieri e dame il dí della morte nefanda. Due vittime erano destinate ogni giorno pe’l drago: un cavaliere e una dama. Ma Prasildo fu in tempo ad apprendere, Dio sa come, la sorte che aspettava il suo Iroldo, e camminando giorno e notte venne in Orgagna e propose gran somma d’oro al guardiano di Falerina se gli liberava l’amico. Invano. Con l’oro offerse sé stesso in cambio di vittima, e il guardiano accettò, e Iroldo fu libero. Tuttavia Iroldo voleva morire egli pure, perché il giorno che l’amico dovea essere condotto alla belva, si mise in un boschetto presso a una fonte ad aspettare ch’ei passasse di là fra i custodi, e contro di essi egli voleva combattere solo. Aspettando piangeva, non già di sé, che sarebbe perito da valoroso per amore fraterno, ma della sorte la quale per sua cagione toccava a Prasildo; e Rinaldo, a caso in quel bosco, l’udí lamentare e gliene chiese la causa. Saperla e disporre il suo valore in premio e salute d’una cosí ferma e santa amicizia fu un punto; fu un punto per lui scorgere la turba che con a guida il gigante Rubicane traeva al supplizio un cavaliere e una dama e piombare su quella e sbaragliarla. Ma di bei colpi fu capace anche Iroldo, e la battaglia presto finita. La donna era Fiordiligi, che aveva raccontata a Rinaldo la storia d’Iroldo e di Prasildo, e il cavaliere era Prasildo; e i due amici si gettarono l’uno tra le braccia dell’altro. ———— Damone e Pizia. Meglio, per riguardo all’origine della loro amicizia e fratellanza, Iroldo e Prasildo rievocano a mente Gisippo ateniese e Tito Quinzio Fulvo romano. Gisippo — ve ne rammentate? — come sa che Tito, l’amico suo di giovinezza e di studi, è preso della bellezza di Sofronia sua fidanzata, fa ch’egli l’ottenga per inganno in isposa. Ma poi, quando, trascorsi molti anni, Gisippo arriva a Roma in povero stato e crede che Tito non voglia riconoscerlo e a fin di morire s’incolpa d’avere ucciso un uomo, Tito “per scamparlo dice sé averlo morto. Il che colui, che fatto l’avea, vedendo, sé stesso manifesta, per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati....„ To’! — esclamerebbe adesso un piccolino Livingstone della storia letteraria —: anche la novella ottava della giornata decima del _Decamerone_ è una fonte dell’_Orlando Innamorato_! —, e con gli occhi stanchi, che san le ricerche, ravvivati di nuova luce e di nuovo gaudio suderebbe alla scoperta di prove. Ma che prove! Potrà anche credersi che il Boiardo si ricordasse pur di quest’altra novella; non per ciò l’analogia dell’invenzione, ch’è il meno, ha alcuna importanza, se tra i due scrittori è tanto diversa la potenza, l’attitudine, la fattura artistica, ch’è il piú. Vedete in confronto di Iroldo e Prasildo, Gisippo e Tito. Questi sono d’animo romano e di senno ateniese e son dotti, come scolari di Aristippo, a sottomettere il sentimento alla ragione. Filosofi, tengono l’amicizia per il piú gran bene; onde l’uno può cedere la sposa all’altro e l’altro accettarla: l’uno viene a tanta liberalità perché le mogli non si trovano con la difficoltà con cui si trovano gli amici; e l’altro acconsente alla dedizione perché comprende di acquistare dall’amico suo con l’amata donna la vita stessa, essendo egli per mal d’amore ridotto quasi a termine di morire. Vedete in confronto di Tisbina, Sofronia giovinetta..... — E a che cosa giova tale studio? Tardi giunge l’ironica domanda; alla quale per altro io so rispondere a tempo che il Boccaccio non è Masuccio e né pure Matteo Boiardo è Gianfrancesco Loredano, e che, almeno a mio parere, i classici non si sono studiati e ammirati mai abbastanza. ¹ Masuccio Salernitano, novella XXI. ² _Novelle degli Accademici Incogniti_: par. II, nov. prima. ³ Ant Fr. Ghiselli, _Memorie di Bologna antica_, manos. nella R. Bibl. Univ. di Bologna: T. XVI, all’anno 1579 (23 giugno). ⁴ Idem, anno 1576 (24 agosto). — Pellegrina era nata il 23 luglio 1564 (Cicogna, _Iscrizioni veneziane_, T. II, p. 211): andò dunque sposa un mese piú che dodicenne. ⁵ Rinieri, _Diario_ (alla Bibl. Comunale di Bologna). ⁶ Ghis., T. XVII, anno 1583 (23 decem.); ’84 (14 aprile), e T. XVIII, pagina 507. ⁷ Ghis., T. XVIII, 1588 (pagina 547 e seg.). ⁸ Firenze, Marescotti, 1581: in-8. Il Verino, “dottore ordinario e lettor pubblico della filosofia e cittadino fiorentino„, dedicò anche ad Ulisse Bentivogli una sua _Lezione dove si ragiona delle idee et delle bellezze_. ⁹ _Il Ballarino di m. Fabrizio Caroso, diviso in due trattati_, Venezia, Ziletti, 1681. ¹⁰ Pref. alle _Rime_, par. III: Bologna, Vit. Benacci, 1590: in-12. ¹¹ Ghis., T. XX, 16 agosto 1595. ¹² Cito il mio libro _Romanzieri e romanzi del cinquecento e del seicento_, avvertendo il lettore che ne scrisse assai male il noto critico Zannoni nel fasc. XXIV della _Nuova Antologia_ (1891), pag. 781-783. — Delle persone mascherate nella _Fuggitiva_ diedero i nomi veri il Ghiselli, il Mazzucchelli, il Giordani ed altri, ma non furono concordi a determinare quello dell’amante piú fortunato di Pellegrina: che fosse Fl. Malvezzi dice il Montefani (_Spoglio delle famiglie bolognesi_, ms. nella R. Bibl. di Bologna), fam. _Bentivoglio_. — L’anno della morte di Pellegrina cercai inutilmente nelle memorie e nei diari bolognesi. Il cavalier Saltini, a cui mi rivolsi e a cui debbo grazie, suppone come probabile il 1598 (estate) ed io tengo certa questa data, per piú ragioni che sarebbe troppo lungo dichiarare. È curioso che il marito e i figli della Bonaventura “adirono„ all’eredità de’ beni di lei soltanto il 22 maggio 1615: ma forse fu perché si sopisse il ricordo della sua fine. Infatti il notaio che redasse il rogito non sapeva pur egli la data della morte di Pellegrina e scriveva: _“.... cum multis annis iam elapsis ab intestato decesserit Ill. et Ecell. dona Peregrina De Bonaventura et de Capellis....„_ (_Scritture della fam. Bentivoglio_: Archivio di Stato di Bologna). ¹³ Ghiselli, op. cit., T. XXVI. ¹⁴ Montefani, _Fam. Malvezzi_. ¹⁵ Galeati, _Diario_ (Bibl. Com. di Bologna), all’11 maggio 1618; Ghiselli, T. XXII, al 23 dicem. 1611. ¹⁶ Galeati, op. cit. ¹⁷ Del Barbazza letterato e poeta e accademico Gelato, Incognito, della Notte, etc., dissero anche troppo il Fantuzzi (_Scrittori bolognesi_), il Mazzucchelli, l’Aprosio (_Biblioteca_, 1673, pag. 324-329); io, per il breve mio studio, credo d’aver detto abbastanza pur essendomi dimenticato di ricordare che il Barbazza fu anche autore d’un dramma — _Il Ratto di Proserpina_ — recitato a Bologna nel 1640. Dimenticanza grave! ¹⁸ Lett. del Marini, ediz. 1673, pag. 269. ¹⁹ Vedi il Mazzucchelli e l’Aprosio (_Biblioteca_, pag. 324); e per le relazioni tra il Marini e il Barbazza, il Menghini, _Vita e opere di G. B. Marini_ (Roma, 1888). ²⁰ _Spira, appresso Henrico Starckio_, MDCXXIX, in-12. Ma non _Roberto_, Robusto _Pogommega_. Errore gravissimo! ²¹ Galeati, _Diar._ (_Appendice_ I, pag. 8); Ant. Maria Carati, _Li matrimoni contratti in Bologna, fedelmente estratti da’ loro originali parrocchiali_, T. I (ms. alla Bibl. Com. di Bologna). — Bianca ebbe in dote 40000 scudi. ²² Fra gli _Epitalami_ del Marini. ²³ Ghiselli, T. XXII, p. 525-529. ²⁴ Ghiselli, T. XVIII, pag. 370 e seg. ²⁵ Malvasia, _Felsina Pittrice_, p. IV, pag. 42. ²⁶ Ghiselli, T. XXIII, pag. 462-579. A stampa: _Breve descrizione della festa nella gran sala del Sig. Podestà l’anno 1615, il dí 2 di marzo_: Bologna, Stamperia Camerale. ²⁷ Ghiselli, T. XXIV, pag. 567-573. Posidonio e Fr. Maria Tagliaferri, _Diario_ (alla Bibl. Universitaria di Bologna), pag. 51-52; Galeati, _Diario_, pagina 21. ²⁸ G. B. Guidicini: _I Riformatori dello stato di libertà della città di Bologna dal 1394 al 1797_, T. III, pag. 47. Il Guidicini trascrisse dal Ghiselli la relazione dell’assassinio del Pepoli; errò ponendo il primo ferimento dell’Aldrovandi al 1620 anzi che al 1621. L’Aldrovandi fu ferito anche da Ugo e Giacinto Barbazza dopo che il Pepoli fu ammazzato da Guido Antonio. ²⁹ Galeati, _Diario_, pag. 21. ³⁰ Ghiselli, T. XXIV, luogo cit. ³¹ Galeati, _Diario_ pag. 112. ³² Ghiselli, T. XXVI. ³³ _Canzone del Sig. Cav. Andrea Senatore Barbazza in morte della Contessa Bianca Bentivoglio defonta li 29 ottobre 1629_: ms. nella Bibl. Com. di Bol. — A stampa: Bologna, 1631: in-4. ³⁴ Guidicini, op. cit., pag. 52. ³⁵ Gregorio Leti: _Lettere sopra differenti materie_ (Amsterdam, 1700: in-8) T. I, 30. — Una volta per sempre: Moreri, _Dizionario_; Niceron, _Mémoires_ T. II, pag. 359-379. ³⁶ G. L. _Lettere_, T. I, 32. ³⁷ _Lettere_ cit., T. I, 21. ³⁸ _Lett._ cit., T. I, 24. ³⁹ _Lett._ cit., I, 13. ⁴⁰ Gr. Leti, _Lettere_, I, 195; Larousse, _Grand Dictionnaire Universel_. ⁴¹ Larousse, op. cit.; — _Les Illustres Avanturieres dans les cours des princes (Cologne, chez Pierre du Marteau, 1706_) pag. 41; pag. 48. ⁴² Gr. Leti, _Lettere_, I, 197. ⁴³ _Lett._ cit., I, 199. ⁴⁴ _Lett._, cit., I, 206. ⁴⁵ Larousse, op. cit. ⁴⁶ Leti, _Lett._, I, 203. ⁴⁷ _Lett._ cit., I, 221. ⁴⁸ _Lett._ cit.; luogo cit. ⁴⁹ _Lett._ cit., I, pag. 226-229. ⁵⁰ _Lett._ Cit. T. II, pag. 36; pag. 583-584. Anche: Pref. alla _Monarchia di Luigi XIV_, di G. L. ⁵¹ _Lett._ cit., T. II, pag. 45 e seg. ⁵² _Il Puttanismo Romano nuovamente ristampato, con l’aggiunta d’un dialogo tra Pasquino e Marforio sopra lo stesso soggetto, et insieme con il Nuovo Parlatorio delle Monache — Satira comica di Baltassaro Sultanini Bresciano_ — Londar (sic) per Tomaso Buet, 1669. ⁵³ Leti, _Lett._, II, pag. 318-323. ⁵⁴ .... _e Pasquino morto risuscitato_, senza luogo e nome di stamp., 1668: in-12. ⁵⁵ Colonia, Antonio Turchetto, 1676: in-12. ⁵⁶ Leti, _Lett._, II, 3. — _Critica, storica, politica, morale, economica e comica su le Lotterie antiche e moderne_, Amsterdam, 1697. ⁵⁷ _Lo scolare, Dialoghi di Annibale Roero, l’Augusto Intento, ne’ quali con piacevole stile a pieno s’insegna di fare eccellente riuscita ne’ piú gravi studi, et la maniera di procedere honoratamente._ Pavia, G. B. Dismara, 1604: in-8. ⁵⁸ _Della Carrozza di ritorno, o vero dell’esame del vestire e costumi alla moda, di Giovanni Tanso Mognalpina_ (Agostino Lampugnani): Milano, Lodovico Monza, 1650; in-12., pag. 47. Mi giovò anche la _Carrozza da Nolo_ dello stesso: Venezia, Zenero; 1648: in-12. A proposito delle mode parigine del suo tempo il Marini scriveva una lettera curiosa a don Lorenzo Scoto. Vedi _Lettere del M._ (ediz. 1627), pag. 177. Delle mode femminili “attraverso i secoli„ scrisse articoli la _Contessa Lara_ nel periodico _La Tavola Rotonda_ (1891-92): vedi in proposito il n. 8. Anche: A. Robida, _Mesdames nos aieules_, Paris, Librairie Illustrée, 1890. ⁵⁹ Cosí Carlo Celano negli _Avanzi delle Poste_. ⁶⁰ Ghiselli, op. cit., T. XXX, pag. 232. ⁶¹ Vedi la _Storia del Giorno di G. Parini_ scritta da G. Carducci. ⁶² Cicogna, _Iscrizioni Veneziane_, I, 135. ⁶³ Non tutte queste opere furono stampate. Cicogna, op. cit. ⁶⁴ Ang. Aprosio, _La Biblioteca Aprosiana_ (Bologna, Manolessi, 1673), pag. 173; Tarabotti, _Lettere_, p. 207. ⁶⁵ Arc. Tarabotti, _Lettere famigliari e di complimento_: Venezia, Guerigli. 1650: in-12. ⁶⁶ Fu stampata con la _Controsatira_ del Torretti prima dal Sarzina nel 1638, poi a Siena dal Bonetti nel 1656 insieme con la _Censura_ del Sesti e l’_Antisatira_ della Tarabotti. ⁶⁷ Aprosio, op. cit., pag. 168. ⁶⁸ _Antisatira_, Venezia, Valvasense, 1644: in-12; ediz. cit. del 1656, pag. 54. ⁶⁹ Aprosio, op. cit., pag. 168. ⁷⁰ Tarabotti, _Lett._, pag. 168. ⁷¹ Aprosio, op. cit., pag. 169. ⁷² Tarabotti, _Lettere_, pag. 313 e pag. 30. ⁷³ Tarabotti, _Lettere_, pag. 315 e pag. 157. ⁷⁴ Tarabotti, _Lettere_, pag. 273 e pag. 298. ⁷⁵ G. F. Loredano; _Lettere_ (Bologna, Longhi, 1674: in-12.), p. 182. ⁷⁶ Venezia, Guerigli, 1630-1636: in-8. Un cenno di questo libro dié anche il Cantú: _Della letteratura italiana esempi e giudizi_, pag. 353. ⁷⁷ _La rigogliosa_ — “Niuna il venti et ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto.... Delle quali la prima, e quella che di piú età era, Pampinea chiameremo„. (_Introd. al Decam_.) ⁷⁸ Πᾶν ϕίλος = tutto amoroso. ⁷⁹ νέη ϕίλη = giovinetta amorosa. ⁸⁰ Amante del canto. — Nella favola, Filomena “con giudizioso procedimento„ avvertí Progne della colpa di Tereo. ⁸¹ Διώνεος = venereo. ⁸² Αἱμυλία = lusinghiera. ⁸³ Proemio al _Filostrato_. ⁸⁴ Camillo Antona Traversi nelle note al Landau — _Giovanni Boccacci, sua vita e sue opere_ — pag. 548. ⁸⁵ Laura = Dafne. Forse perché per “mutar vesta„ Lauretta “disse sí„ a un amante dal quale ora vorrebbe rifuggire come già la debole Dafne fuggi da Apollo (v. pag. 193). ⁸⁶ Didone, la tradita. ⁸⁷ Lo stesso nell’opera cit., pag. 316. ———— *ERRORI DI STAMPA.* _Seppelita_, pag. 50; _invitare_, pag. 73. In alcune copie a pag. 129 si legge, nella seconda riga, _1634_ in vece di _1654_. ———— _Finito di stampare_ _il dì 2 maggio MDCCCXCII_ _nella tipografia di Nicola Zanichelli_ _in Bologna_. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 223 ("Errori di stampa") sono state riportate nel testo. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): 66 — fossero condotti alla Conciergerie [Congerie] 84 — immuni “da [mancante nell’originale] 85 — vedrebbe di stabilire [stabibilire] 95 — gentiluomini [gentitiluomini] 101 — lo Spagnuolo [Spagnnolo] 189 — per me [m’è] s’è conosciuto 224 — e di senno ateniese [atienese] 224 — Matteo Boiardo [Boiardi] *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK PARVENZE E SEMBIANZE *** A Word from Project Gutenberg We will update this book if we find any errors. 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